Protagonisti – Sara, Dall’Australia Alla Calabria Per Difendere I Diritti Umani
di coopfoco
Nata in Calabria, emigrata in Australia, Sara Ambrogio è ritornata nella propria terra. Lavora a Casa di Ismaele (Rogliano) per promuovere sul territorio l’attività di Fare Sistema Oltre l’Accoglienza e per accompagnare i ragazzi nel percorso dell’autonomia: “Quando divento un intralcio significa che ho raggiunto l’obiettivo”
Sara, perché proprio in Calabria dall’Australia?
Questa è la terra in cui sono nata, ma che sto conoscendo solo adesso grazie alla fiducia che FSOA mi ha accordato. La Calabria è una terra ricca di umanità ma con tante contraddizioni: è patria di migranti, quindi naturalmente votata all’accoglienza dello straniero. Quello straniero che ha lo stesso volto dei nonni partiti alla ricerca di fortuna o dei figli che ancora oggi sono costretti a emigrare. Ma la Calabria è anche terra devastata dal malaffare e da sacche di corruzione in cui si diffonde una narrazione che riduce lo straniero a uno stereotipo, lo schiaccia in una caricatura da cui bisogna difendersi. Del resto questa è una regione in cui convivono due città – e due realtà – come Riace e Rosarno. Esempio di accoglienza l’una; capitale del caporalato l’altra. È la gestione dell’accoglienza che segna la differenza.
In cosa consiste il tuo lavoro?
Mi occupo di promuovere Fare Sistema Oltre l’Accoglienza sul territorio, tessendo pezzetto dopo pezzetto la rete di attori sociali di buona volontà che credono davvero che per cambiare le cose occorra fare la propria parte nel mondo. Ho relazioni soprattutto con le aziende. Certo, non sempre è facile, ma ho avuto la fortuna di scoprire un universo fatto da imprenditori illuminati e coraggiosi, pronti ad affrontare le sfide che inevitabilmente questo tessuto economico pone: sono fiori nel deserto per la loro resistenza ostinata a sopravvivere in un territorio obiettivamente complicato. A volte la diffidenza iniziale si è trasformata poi in totale affidabilità e umanità. Ci sono imprenditori che mi chiamano al termine di una giornata di lavoro per chiedermi se possono portare i ragazzi a fare una partita di calcetto o a mangiare una pizza.
Quando hai iniziato a lavorare con i migranti? Cosa ti ha spinto a compiere questa scelta?
La mia è una storia al contrario. Lavoravo in Australia, Paese che amavo profondamente e nel quale vivevo da immigrata privilegiata. Ho iniziato a frequentare un Master universitario presso il Centro di Ricerca per i Diritti Umani della Curtin University di Perth e sono entrata in contatto con accademici e attivisti di grande levatura nell’ambito dei Diritti Umani. Fino ad allora provavo un sentimento confuso e un bisogno viscerale di combattere l’ingiustizia. Ma non riuscivo a incanalare questi impulsi in una giusta direzione. L’aver approfondito gli studi sul tema dei Diritti Umani mi ha fatto capire quale strada prendere: volevo lavorare con e per gruppi sociali svantaggiati. Un giorno, mentre ero in vacanza in Italia, una cara amica mi disse che stavano per aprire un centro per minori non accompagnati proprio nel mio paese. Così, ho tentato un colloquio con la cooperativa siciliana Fo.Co., ente gestore dello Sprar, che era alla ricerca di un operatore legale. Caso volle che la cooperativa in questione fosse tra i soggetti promotori del Programma e decise di affidarmi non solo quel ruolo, ma anche l’aspetto degli inserimenti lavorativi. E nel 2018 ho iniziato a lavorare per Casa di Ismaele a Rogliano.
Quali sono le difficoltà maggiori dei ragazzi beneficiari del programma FSOA?
Il problema maggiore che riscontro con grande rammarico è l’enorme diffidenza con cui si trovano a fare i conti nel loro cammino d’inclusione. C’è una tendenza generalizzata a pretendere di più da questi giovani, come se dovessero dimostrare più degli altri che si stanno guadagnando il loro posto nel mondo. Questa pressione va a sommarsi alle normali difficoltà legate alla condizione del migrante: la lingua, la continua necessità di ottenere un permesso di soggiorno e la lontananza dai propri affetti. È una diffidenza purtroppo insita anche nelle istituzioni, qualcosa del tipo “non ti discrimino perché sei diverso, ma ti chiedo un documento in più rispetto al cittadino italiano anche per avere accesso al più banale dei servizi”.
Che tipo di storie hanno in genere alle spalle i ragazzi di Casa di Ismaele?
Io lavoro soprattutto con minori stranieri non accompagnati: questo significa trovarsi a fare i conti con giovani esposti prematuramente al dolore dell’abbandono. Non bisogna sminuire la sofferenza e la fatica dell’aver lasciato un nucleo familiare in età precoce, con tutte le conseguenze del caso.
Ci sono delle storie che ti hanno colpita in maniera particolare?
Di ogni storia porto un ricordo molto nitido. Mi ricordo – per esempio – di un giovane ragazzo somalo che ha visto suo padre morire per mano dei talebani e che ha subito traumi di ogni tipo nelle carceri libiche. Non sono riuscita a fare per lui quello che ho potuto fare per altri: il trauma subito era troppo grande. Alla fine questo ragazzo ha deciso di andare in Germania. Ogni sera, prima di addormentarmi, mi chiedo come se la stia cavando ora. Spero che la vita possa restituirgli un po’della serenità che gli è mancata negli anni e spero di rivederlo un giorno.
Che tipo di rapporto riesci a instaurare i ragazzi?
Alcuni hanno messo a dura prova la mia emotività e ho dovuto imparare a gestire l’empatia, che è un’arma a doppio taglio. L’eccesso di empatia può essere pericoloso quasi quanto il cinismo: perdi la capacità di valutare lucidamente come è più opportuno agire. Ho imparato a pensare a me stessa come a un “ponte”, cioè io non posso essere un “salvatore” ma posso solo facilitare il passaggio da una parte all’altra. In generale, poi, cerco sempre di avere un rapporto scherzoso con i beneficiari, perché non dimentico che sono ragazzi e non dovrebbero crescere troppo in fretta.
In cosa consiste un percorso di inclusione?
Non è altro che la conquista di un’autonomia. Che si realizza non tanto quando il beneficiario è in grado di capire come aprire un conto in posta o come leggere una busta paga, ma quando realizza di essere un soggetto titolare di diritti. In genere, questo passaggio a me appare evidente quando il beneficiario mi chiede conto di quello che sto facendo per lui, quando prova a leggere il documento o il contratto che gli sto chiedendo di firmare. E non lo fa per diffidenza, ma perché ha compreso di avere un ruolo attivo nella riuscita del suo percorso.
Imprenditori o famiglie che aderiscono al programma Fare Sistema Oltre l’Accoglienza come interagiscono solitamente con i ragazzi?
Le famiglie che si avvicinano al Programma sono generalmente quelle con figli coetanei dei nostri beneficiari, in genere in questo caso l’approccio è di tipo pedagogico: sperano di educare i propri figli ai valori dell’intercultura e dell’accoglienza. Gli imprenditori, invece, hanno gli approcci più svariati e la differenza la fa generalmente l’avere già un team caratterizzato da grande diversità culturale. Per le aziende non abituate è una scoperta continua.
Cosa significa per te la parola “accoglienza”? e cosa significa e perché è così importante “fare rete”?
Per me la parola “accoglienza” implica una profonda riflessione su se stessi e i propri schemi mentali. Chi vuole imparare ad accogliere deve essere aperto a guardare al proprio contesto culturale come a una delle possibili opzioni e non come all’unica formula immaginabile. “Fare rete” diventa quindi lo strumento più efficace non solo per mettersi a confronto senza temere l’altro, ma anzi prendendo dall’altro quello di cui non siamo capaci noi, in una relazione di mutuo aiuto.
Quali sono i momenti più belli del tuo lavoro?
Soni tanti, ma se dovessi sceglierne uno direi il momento in cui il mio lavoro diventa inutile perché il ragazzo beneficiario del Programma ha acquisito quel livello di autonomia che mi fa sentire d’intralcio.
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