L’orto in-festato di amore e dedizione da Giuseppe Pellegrino. Un altro modo di “piantare” benessere.
di officinacreativa
Giuseppe Pellegrino, titolare dell’agriturismo biologico “Piccapane”, sta curando, presso la sezione maschile dell’istituto penitenziario di Lecce, un progetto che si pone come obiettivo quello di trasmettere ai detenuti la bellezza e la sensazione di libertà, che solo la natura è in grado di dare, consentendo loro di lavorare. I detenuti si occupano della coltivazione biologia di piantine di arachidi.
Giuseppe Pellegrino, in un incontro online con i nostri ragazzi, ha dichiarato: “Entrare in carcere per la prima volta è stata un’emozione fortissima, in ogni momento pensavo alla loro condizione quindi, alla privazione della libertà. Durante la giornata ho avuto sempre un unico pensiero: Cosa significa essere privati della libertà? In quel momento ho cercato di comprendere il più possibile le loro sensazioni e ho apprezzato ancora di più la libertà, che le mie scelte di vita mi hanno concesso e mi permettono di vivere. Ho scelto di fronteggiare contesti arcaici o desueti e, proprio qui, senza restrizioni, ho trovato il mio equilibrio.
Con la mia esperienza ho cercato di comprendere lo stato dei detenuti e ho cercato di capire come poter essere d’aiuto per loro. Guardando i loro occhi, ho percepito un interesse e un forte desiderio di mettersi in gioco per trovare una strada felice da percorrere fino all’uscita. Uscire da un luogo di restrizione fisica e stare nei campi a contatto con la terra potrà essere motivo di grande soddisfazione e benessere; la dedizione e la costanza permetteranno loro di vedere la natura, che con i suoi tempi cresce rigogliosa, di raccogliere i frutti del lavoro e potrà metaforicamente insegnare loro il senso della vita.
La vita è un flusso inarrestabile, che deve essere sempre coltivato con nuove ambizioni e possibilità. Con il nostro progetto vogliamo trasmettere loro nuovi stimoli per riaccendere e mantenere sempre accesa la loro voglia di vivere nel rispetto delle regole.
Nonostante gli obbiettivi siano chiari e le nostre forze siano al massimo, per l’implementazione di un progetto di questo tipo bisogna affrontare alcune difficoltà. La pandemia non ha giocato a nostro favore e ha causato un ritardo di almeno sei mesi; il progetto era stato pensato e organizzato già dallo scorso anno, ma a causa delle restrizioni e, per validi motivi di sicurezza, non è stato possibile accedere al carcere e iniziare questa collaborazione. Dopo il primo incontro e con l’avvio delle attività, il nostro lavoro ha iniziato a prendere forma e ci siamo impegnati per superare e risolvere nuovi problemi. Il tempo della natura è sovrano e non sempre compatibile con le regole stringenti di un carcere; è infatti necessario coadiuvare e coordinare queste due realtà.
La giornata in campagna inizia alle 5.30 per poter godere dell’aria fresca del mattino, tuttavia gli orari del carcere sono ben diversi: le regole prevedono che ai detenuti sia permesso uscire dalle 8 e di conseguenza questo comporta la perdita di ore di lavoro prezioso. Un progetto di questo tipo richiede che tra questi due contesti si crei un rapporto sinergico di cooperazione e corrispondenza, in cui uno è di aiuto all’altro. Un’altra problematica è quella relativa alla manodopera: ad inizio progetto abbiamo lavorato e improntato tutta l’attività in base a cinque detenuti ma, senza preavviso, tre sono stati trasferiti, pertanto è stata necessaria una nuova riorganizzazione. Abbiamo perso ore di formazione che ci hanno impedito di dare continuità a tutta la nostra attività, non siamo abituati a perdere risorse perché in natura ogni elemento è prezioso, ma nonostante tutto con una corretta programmazione abbiamo continuato a lavorare. Più volte, tuttavia, in carcere si assiste ad un turnover repentino e inatteso.
Le attività in campagna e il contatto con la natura, per come lo intendo io, richiedono estrema cura e dedizione, la terra deve essere costantemente lavorata e “accarezzata” per poter essere morbida e rigogliosa così come richiesto dalla coltivazione di piantine di arachidi. Tra noi e la terra si deve instaurare un rapporto “madre – figlio” basato sul rispetto, la collaborazione e finalizzato al miglioramento. Utilizzando questo modus operandi la gestione di un orto in un carcere risulta particolarmente difficile, dato che l’attenzione e la cura quotidiana non sempre possono essere garantiti in questi termini e si rischia di trasformare il campo in un orto in-festato da piccole erbette che rubano principi nutritivi, impedendo un’adeguata crescita delle piantine di arachidi. Il nostro punto di arrivo sarebbe quello di riuscire a mantenere un orto sempre “in festa”, quindi pieno di vita e di frutti.
Le piantine di arachidi si iniziano a curare da metà maggio sino a settembre, la nostra gestione agricola richiede tempo perché la cura dei frutti è affidata alle mani, alla fatica e al sudore dei nostri contadini senza il supporto di macchine e prodotti chimici. Creiamo prodotti biologici di qualità e di nicchia, che porteranno beneficio ai consumatori e soprattutto ai detenuti-produttori.
La nostra sfida, quindi, si sostanzia nel tentativo di cercare di tradurre il linguaggio imprenditoriale e quello del carcere in un’unica soluzione vincente e stimolante per i detenuti e per la natura stessa.”
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