“Era di martedì, fu il giorno della mia liberazione”, il racconto di un giocatore d’azzardo per 30 anni

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A 16 anni sedeva già ai tavoli da poker. Su di lui puntavano quelli che avevano più soldi, lo facevano per farlo giocare e vincere, poco importava cosa sarebbe significato.  Il padre, navigato avvocato penalista del Vomero, si accorse del pantano nel quale il figlio si stava calando mani e piedi e gli impose di non frequentare più quell’improvvisato circolo infrattato nella Napoli bene che lo avrebbe portato al baratro. L. (il protagonista ha deciso di non rivelare il suo nome, chiedendo che venga puntato), alla soglia della maggior età gli diede retta. Meno di tre anni dopo però, il papà lungimirante, morì lasciandolo ancora toppo fragile. L. oggi di anni ne ha 62 e per 30 anni è stato un giocatore d’azzardo patologico. Il suo racconto segue la traccia dei ricordi lavorativi.

A 23 anni venne assunto in una nota società italiana specializzata nell’attività di distribuzione del gas. Per quattro anni e mezzo trascorse 5 giorni su 7 a Roma e la vita sembrò scorrere come acqua fresca. Conobbe la donna che sarebbe poi diventata sua moglie e madre dei suoi due figli, Fabrizio e Mariaflora. Si incontrarono grazie ad una sorta di gemellaggio aziendale con la forma di un campionato di bowling. Il passatempo si trasformò in passione e L. divenne bravo a stendere birilli, studiando tecnica, inclinazione e peso fino ad approdare alla serie A con tanto di premi e trofei. La routine, venne interrotta qualche anno dopo. Fu trasferito, sempre per conto della stessa società, a Napoli negli alti palazzi di vetro conosciuti con il nome di Centro Direzionale, un agglomerato di moderni grattacieli nel quartiere di Poggioreale, a ridosso della stazione di Napoli Centrale.

Il canto seducente che aveva lasciato tra le carte da poker, si ripresentò in una tavola calda quando di anni ne aveva più o meno 30.

Fu in quel piccolo ristorante di panini, pizze al taglio e anonimi piatti pronti in grandi vassoi di acciaio, che L. trovò una slot machine. Il pokerista, abituato a calcolare i rischi e a leggere i volti degli avversari si fece ingannare dalla macchinetta dai colori sgargianti e che in fondo gli pareva innocua. “Nel lavoro ero bravo ed il mio stipendio cresceva anche grazie agli straordinari che la società ci chiedeva ma i soldi ad un certo punto cominciarono a non bastare. C’era ancora la lira, allora, e puntare 1000 lire mi pareva come lanciare delle biglie contro un muro. Le quote da puntare però crebbero, aggiungendo prima uno zero, poi due e tre fino a cambiare totalmente la cifra. Non era una questione di abilità, non lo è mai”.

L’adrenalina del tavolo verde di cui si era invaghito nell’adolescenza, tornò con l’abito del gioco d’azzardo patologico e con le perdite di denaro anche l’assunzione incontrollata di alcol.

 “Li conoscevo oramai tutte le Vlt e i prestiti che di volta in volta chiedevo alle diverse finanziarie non bastavano mai. Persi finanche l’eredità che mia madre mi aveva dato, vendendo il suo appartamento al Vomero, e che doveva servire per il futuro dei miei figli”, confessa L. e poi l’ammissione più dura che gli spezza il fiato in gola facendolo vacillare sotto una pesante emozione che non riesce a bloccare. “I miei figli mi hanno sempre amato, più di quanto io meritassi ed io invece non li ho saputi proteggere, neppure da me stesso”. L., con la vana convinzione di riuscire a gestire la sua dipendenza, aspettava ogni volta il giro buono ma ad arrivare erano solo le scadenze dei crediti chiesti e la caterva di bugie che continuava a raccontare alla moglie e ai figli, mentre con l’alcol tentava di cancellare i giorni che passava tra una slot, un 10 e lotto e altre macchinette mangia vita. Giochi che lo hanno portato alla disperazione mentre lo Stato faceva cassa. A guardare i numeri dell’azzardo legale (nel 2023 ha fatturato 136,115 miliardi) ed illegale (dai 18 ai 25 miliardi di euro all’anno) in Italia, c’è da restarne impressionati.

Tra il 2020 ed il 2021, eravamo nel periodo natalizio, mi accorsi di non reggere più ed una mattina decisi di confessare tutto. Sul conto erano rimaste poche centinaia di euro ma a crollare fu innanzi tutto la fiducia e la stima di mia moglie. Divenni trasparente, in preda a ingestibili sensi di colpa misti ad un concentrato di fragilità e disprezzo che leggevo nei loro occhi. Ero diventato un gingillo senza dignità fino a che, grazie all’insistenza dei miei figli ho accettato di a farmi aiutare e ho ammesso di essere un ludopatico. Un drogato in giacca e cravatta, ma pur sempre un tossico”, dice L.. Ora, ne parla con serenità ma il complesso vortice che lo stava risucchiando è ancora chiaro nella sua testa. Sono trascorsi due anni dal suo primo incontro al SerD di Acerra dove Fabrizio e Mariaflora decisero di accompagnarlo e non lasciarlo affondare. “Era di martedì, lo ricordo con esattezza. Fu quello, il giorno della mia liberazione. Con me c’era mia figlia, non capivo quello che sarebbe stato ma avevo la certezza di dover fare esattamente quello che mi chiedevano”.

Dopo una valutazione medica, psicologica e sociale, l’équipe multidisciplinare gli ha proposto un intervento personalizzato ed integrato rivolto non solo a lui ma anche alla sua famiglia. Un piano terapeutico particolare, reso possibile anche grazie al progetto Game Over che ha messo insieme parte sociale ed istituzione sanitaria, salvando L. e non solo lui. Al Centro di Acerra, il giovedì pomeriggio si fa riunione. Si incontrano giovani e meno giovani, per parlare delle loro paure, dei loro successi, fallimenti e risalite. Si parla della dipendenza dal gioco d’azzardo, dalla droga o dall’alcol, senza nascondersi, accolti da una comunità che è riuscita a fare rete con le associazioni e con il mondo cooperativistico spostandosi dall’asse prettamente sanitario all’asse educativo.

a cura di Tina Cioffo

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