Educazione Ricerca Teatro Sogno Territorio… Parole (quasi) magiche…

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Ci avviamo alla conclusione di quest’avventura. Non vogliamo ancora fare bilanci, essendo consapevoli che la situazione rimane molto difficile e non siamo usciti dall’emergenza.

Non cerchiamo parole magiche… ma potrebbe anche capitare che magari le troviamo parlando con Giuseppe Di Somma dell’ Associazione TRERROTE


Intervista a cura di Giorgio Guzzetta, responsabile della comunicazione per il Progetto Ascetate

Siamo di nuovo in zona rossa e non sembra che l’emergenza stia passando, malgrado i vaccini ormai ci siano, almeno sulla carta. Si avverte un senso non dico di depressione ma di sconforto, quasi non si riuscisse a vedere la fine del tunnel. Le scuole sono di nuovo chiuse, e ormai anche le proteste contro la dad sono diventate quasi una routine sui giornali. La possibilità di una scuola degna di questo nome sembra essere un miraggio sempre più evanescente, sempre più irraggiungibile.

Come state vivendo questa situazione?

Resistendo, diciamo, come facevamo già prima dell’emergenza sanitaria. Da un lato il confinamento genera non poche difficoltà nel realizzare le attività, nello stare insieme ma anche nel ripristinare un clima di serenità totale quando ci si vede con i ragazzi oppure quando li sentiamo. Diciamo una situazione che trasversalmente, e non solo per il nostro lavoro, sta colpendo tutti. È proprio lo stato emotivo di fondo, di paura, di incertezza, di confusione che secondo me sta creando non poche complicazioni. Resistiamo nel senso che anche prima il nostro lavoro era focalizzato sul resistere alle tante difficoltà e crisi che esistevano già prima. Paradossalmente il lavoro di costruzione di legami, di vicinanza che abbiamo fatto prima dell’emergenza ci mette in una situazione privilegiata perché riusciamo a preservare degli spazi di apprendimento anche a volte a distanza con i ragazzi perché si fondano su dei legami consolidati che sono poi la vera linfa che permette uno spazio di didattica, di apprendimento, uno spazio educativo. Il fatto che le scuole siano in difficoltà, che l’intero sistema educativo sia in difficoltà parte da questa crisi piuttosto che dal fatto che esista adesso un virus in giro. Secondo me prima si poteva parlare di DaD in presenza, si stava insieme in una classe ma la distanza c’era comunque.

Una “distanza in presenza” che esisteva anche prima e che voi colmavate.

Secondo me si, o quantomeno cercavamo di resistere e di aiutare la scuola, come stiamo facendo adesso e come fanno tante realtà del territorio, cercando di ricreare dei legami. Il problema della didattica è proprio la distanza che non si riesce a colmare tra le generazioni, tra gli insegnanti e gli allievi e tra gli stessi insegnanti. 

D’altra parte se non ci fosse la distanza tra insegnanti e allievi non ci sarebbe neanche bisogno di formare…

 

La mia impressione però è che un cambiamento c’è stato; magari piccolo, ma comunque significativo. Adesso si parla di più di comunità educative che vanno al di là della scuola, per es. Moreno ne ha parlato in un suo articolo sul Corriere del Mezzogiorno (10 febbraio 2021):

La scuola non è luogo di trasmissione del sapere ma luogo dove si crea cultura ossia modi di convivenza, legami, solidarietà umana, piccole comunità tenute assieme dal desiderio di accogliere le nuove generazioni.[…] non sta nell’edificio scolastico, è la società che fa scuola. La distinzione accademica tra scuola ed extra scuola è perniciosa e insulsa: la società fa scuola, insegna alle nuove generazioni attraverso tutti i suoi pori: tra le mura dell’aula, nei laboratori attrezzati, nel tragitto tra casa e scuola, a casa, nei luoghi sociali del territorio, nel web… funziona in modo formale nelle istituzioni preposte, in modo non formale o informale in altri luoghi.

Tra l’altro, in un precedente articolo Moreno si augurava che non ci fosse un dopo-Covid, non, ovviamente, auspicando la permanenza del virus, ma che andasse perduta quella “sensazione di fragilità condivisa che spinge alla solidarietà e a guardare all’essenziale della vita”.

Si riferiva all’attenzione alle fragilità che deve restare alta…

 

Parlando di questa idea di comunità, è un po’ in questa linea di pensiero che Ascetate è nato e si è sviluppato. Mi chiedevo se si è creata, esiste, si deve ancora creare questa comunità educante… qual’è la situazione oggi a Napoli?

Secondo me una comunità educante è sempre in formazione, non si raggiunge mai, non si crea mai… il progetto Ascetate è stato un precursore, in un certo senso. Aveva questa attenzione alla fragilità, che secondo me trova la sua risposta nel ricreare una comunità, perché come dicevo prima ciò che è emerso dall’emergenza sanitaria sono state tutte queste fragilità che fanno capo poi a una scissione troppo profonda tra apprendimento ed esperienza di vita, tra apprendimento e cultura, tra il fare società e fare scuola che invece sono intimamente connesse. Mi colpiva la cosa che diceva Cesare circa la cultura, quanto la cultura, proprio nella sua accezione più nucleare, centrale, sia riferita ai simboli, quanto la cultura si costruisca attraverso la negoziazione di simboli. Questo fino ad oggi non è stato possibile perché la cultura veniva in un certo senso messa fuori a favore di una trasmissione un po’ asettica di conoscenza che non trovavano utilità nella vita dei ragazzi. L’idea di costruire una comunità attorno ai giovani risponde a questa emergenza qui, un’emergenza perenne e che consiste innanzitutto nel creare dei villaggi, dei piccoli gruppi di persone che imparano insieme e che fanno entrare l’apprendimento nell’esperienza o meglio mettono l’apprendimento al servizio dell’esperienza. In questo secondo me per esempio abbiamo fatto anche con Ascetate le feste che abbiamo organizzato le avventure le imprese vanno in questa direzione qui, creare delle piccole esperienze attorno alle quali delle persone diverse tra loro riescono a convivere e ad imparare. Un concetto della comunità educante interessante è l’apprendimento reciproco, il fatto che nella realizzazione di un’impresa comune non è solo il discente a imparare ma anche chi si prende cura del discente a imparare, è un apprendimento reciproco. Una della avventure più recenti che abbiamo fatto è stato costruire insieme il palcoscenico della nostra sala prove, che è stato un apprendimento altamente reciproco, nel senso che alcuni dei ragazzi del gruppo mi hanno per esempio insegnato come si avvita una vite.

È importante anche quello…

Assolutamente. Quest’esperienza ha permesso ai ragazzi di esprimere delle competenze che avevano e di incanalarle, di riconoscerle e di insegnarle. Non è scontato. Queste, per me, sono situazioni di scuola.

Infatti nella visione di Axé un momento importante è quello della restituzione. Ognuno restituisce qualcosa a qualcun’altro. Ricevere e restituire crea un circolo virtuoso che è alla base della comunità, non solo educante. tutte le comunità in un certo senso, ad un certo livello e per un certo periodo sono educanti, per poter essere comunità. 

Piuttosto che dare e avere, bisogna parlare di ricevere e restituire. L’arte in fondo ti insegna questo. Mi chiedevo se e come questo si riverbera sul vostro lavoro. In parte mi hai già risposto, ma magari ti va di aggiungere qualcosa.

Mi ha molto colpito una cosa che mi ha detto Cesare de Florio la Rocca la prima volta che l’ho incontrato non in un convegno, mentre chiacchieravamo in pausa-pranzo. Ha parlato di gratitudine, dicendo che un fattore importante è che nelle persone si riesca a innescare un senso di gratitudine.  Questo è molto importante perché la restituzione è figlia di un senso di gratitudine che è simbolo di un rapporto di amore che io ripristino con la realtà che mi circonda. Molto spesso si parla di rigenerazione urbana, di luoghi desolati etc. Sono luoghi in cui la popolazione ha completamente disinvestito, in cui c’è un disinvestimento del rapporto che hanno con la realtà che li circonda, sono tutti chiusi nelle loro caverne. Invece la gratitudine apre, ripristina un legame d’amore  e di desiderio di bellezza, e questo è fondamentale sia nella restituzione, sia nella capacità di essere proattivi e di voler fare qualcosa per il mondo. Una frase di Hannah Arendt rende bene il senso: bisogna amare il mondo e cercare di far si che le prossime generazioni se ne possano prendere cura a loro volta per migliorarlo.

 

Questo che dici mi fa venire in mente questo fenomeno, che pare sia più frequente in Italia rispetto al resto dell’Europa, di questi giovani, o ex-giovani, che non studiano e non lavorano, i famosi NEET che avendo perso del tutto questo rapporto sociale non si  preoccupano di interagire con la comunità e con la realtà. Praticamente sopravvivono senza speranza. Se avessero un minimo di speranza probabilmente proverebbero a fare qualcosa. 

Oppure sentono che è troppo faticoso, e la troppa fatica fa rinunciare Invece stare insieme ad altre persone ti invita anche a non stare da solo e a capire che le cose si fanno insieme oppure non si riescono a fare. Il problema dei NEET è sopratutto che sono soli.

Immagino, si. Vorrei sapere la giornata di un NEET quale potrebbe essere. O forse no, non lo vorrei sapere, preferirei non fare questa esperienza.

Forse il nuovo ministro dell’istruzione pensava anche a loro in suo recente libro, pubblicato l’anno scorso durante la pandemia, quando ha sottolineato come l’emergenza ha reso necessario “cercare nuovi spazi educativi”. Il rischio, però, è quello che siano solo dei “palliativi temporanei per affrontare l’emergenza”, mentre dovrebbero essere l’occasione  per dare “piena attuazione alla legge sull’autonomia”, diventando “un’opportunità per esplorare il mondo attorno alla scuola” come edificio, favorendo “l’educazione alla sostenibilità dell’ambiente in cui si vive insieme”, creando “comunità solidali e coese” e  ritrovando una “rinnovata socialità”.

Si parla insomma di comunità educative, di cui la scuola è solo una delle realtà coinvolte, sia pure molto importante. Sicuramente questa idea la porterà avanti anche come ministro. Si vede già nei rapporti con le scuole e con le istituzioni questa volontà di creare comunità educanti? oppure è ancora troppo presto per parlare di un cambio di rotta?

Nella nostra esperienza privilegiata, come dicevo prima, qualche cosa si riesce a vedere, anche perché abbiamo la fortuna di lavorare con dirigente che ce l’hanno a cuore. Il contesto ti porta a pensare alla necessità di creare questi spazi. La collaborazione ci ha portato a fare delle piccole esperienze. Anche tutta questa avventura che stiamo vivendo al Lotto G in parte è un’esperienza di comunità e di creazione di spazi. Il tema della DaD solidale che stiamo portando avanti con alcune scuole in cui i ragazzi che hanno difficoltà a seguire vengono la mattina con noi, secondo me poi in questi momenti si creano importanti spazi  educativi. L’unico pericolo che io intravedo è che può esserci quell’equivoco per cui si debbano sempre creare altri spazi educativi e quindi moltiplicare luoghi di educazione. Io credo che la scuola lentamente vada riformata, nel senso che noi uno spazio educativo ce l’abbiamo e però è ancora troppo separato e non riesce a valorizzare ciò che le esperienze, e quindi la cosa che mi auspico è che questa relazione tra ciò che avviene fuori e ciò che avviene dentro diventi sempre più organico. Non deve essere l’esperienza che entra nelle nozioni scolastiche, sono le nozioni scolastiche che devono entrare nell’esperienza. Non peraltro, ma è la scuola che si deve mettere al servizio della vita e non viceversa. Sarebbe un controsenso. La cosa che mi viene da dire è questa: più che cercare altri spazi educativi sarebbe meglio integrare. 

La comunità educativa che ruota intorno a Maestri di Strada infatti integra varie associazioni che interpretano diversi aspetti del processo educativo.  Per esempio TRERROTE mette in relazione la pedagogia con il teatro e con la ricerca, fa ricerca insegnando teatro, fa teatro insegnando la ricerca, insegna a ricercare facendo teatro… quale delle tre? o forse tutte e tre? Parlaci un po’ della vostra storia, di quello che avete fatto e state facendo.

Sicuramente ci sono tre esperienze che in realtà sono accomunate da un altro fattore. Le esperienze che portiamo avanti da un po’ di tempo sono relative a questa doppia formazione che facciamo per adolescenti e per giovani adulti (operatori in formazione). Il collegamento potrebbe essere con questa compagnia teatrale intergenerazionale che si è creata negli anni. Siamo riusciti, e questa è stata una cosa preziosa, a crescere dei ragazzi, formarli, prima erano soli studenti universitari adesso sono anche allievi che sono cresciuti con noi. Questa crescita è avvenuta attraverso il coinvolgimento in azioni di comunità che possono essere affiancare più piccoli nel laboratorio teatrale, creando questa compagnia intergenerazionale che è proprio un ricettacolo di apprendimenti e di incontri con diversità. Si incontrano ragazzi di età diverse, di provenienze diverse. La cosa bella è proprio il fatto che il desiderio di bellezza che poi innesca l’arte, in questo caso il teatro, alimenta il senso di gratitudine di cui ho parlato prima, e quindi si creano questi gruppi di cittadini attivi che in maniera gratuita, spinti dal desiderio di restituire quanto hanno ricevuto in termini umani, alla fine partecipano ad esperienze di comunità. La costruzione del palcoscenico attraverso questo seminario di autocostruzione ne è stato l’esempio. La compagnia intergenerazionale si è prodigata per costruire qualcosa per la città, per le altre persone del territorio. Questo è l’impatto di cui sono più orgoglioso. Dopodichè come dire questo tentativo di far incontrare insieme grandi e piccoli, adolescenti dispersi, rifiutati, che non vanno a scuola, rappresenta poi il vero campo in cui si esprimono tutti i concetti di cui abbiamo parlato. Secondo me questo tema della peer education è proprio il fulcro. Alla fine il lavoro che facciamo noi si basa sull’idea di “crescere facendo crescere ciò che si ha attorno”.

L’attenzione al contesto, a ciò che sta intorno, al territorio, è infatti molto importante. Ed è al centro del lavoro di un’altra associazione che collabora con voi, l’associazione EST che mette in relazione l’educazione con altre due parole molto significative, il sogno e il territorio. Mi piacerebbe sapere come vedi tu questo legame, come secondo te queste tre parole si collegano tra loro. Non è una domanda casuale, c’è un motivo ma preferisco tenerlo nascosto per il momento e sentire prima la tua risposta.

Ci devo pensare. Il legame tra le parole di EST è fortissimo, sembrano quasi sovrapponibili. Penso siano tre termini imprescindibili per portare avanti quello di cui abbiamo parlato fino ad ora. Non può esistere educazione senza un sogno, senza la possibilità di innescare un sogno. Per sogno intendo la possibilità di vedere le cose così come oggi non sono, come potrebbero essere, e quindi immaginare vuol dire rapportarsi in maniera proattiva al mondo e quindi ritorniamo dal sogno all’educazione. Educare significa tirare fuori (e-ducere) ma anche distogliere, portarti in altre strade rispetto a quelle che tu consideri quelle preesistenti, quelle fisse, quelle che non si possono evitare. Quindi le due parole sarebbero concetti astratti se non fossero legate al territorio. Il processo di educazione, di sogno, che fanno capo alla persona, non possono non essere calati in un territorio, nel contesto in cui si vive, nella cultura di cui si è portatori, e nel territorio in cui una persona è nata e cresciuta e di cui deve prendersi cura. Parlare solo di educazione e sogno sarebbe troppo astratto, parlare solo di territorio sarebbe insufficiente. Sono tre concetti che sono a capo della costruzione di un progetto che ha bisogno di trovare una sua incisività sia nella crescita della persona sia nella crescita di una comunità e di un territorio. Io penso che EST alla fine stia cercando di fare questo, attraverso la dimensione del sogno, attraverso i ragazzi che incontra cercare di portare delle esperienze che abbiano anche una ricaduta sul territorio e che si prendano cura del territorio.

Il prendersi cura del territorio è proprio quello a cui volevo arrivare. Infatti ho visto che uno dei progetti presentati sul sito di TRERROTE si richiama proprio a questa parola EST. Non so se esiste un legame con l’associazione EST, ma non mi stupirei. Mi riferisco ovviamente a La Fiera dell’EST…

È vero, è un’altra importantissima esperienza che purtroppo durante il lockdown abbiamo dovuto sospendere del tutto. Nata come laboratorio di narrazione del territorio che avevamo fatto con i ragazzi dei vari laboratori di maestri di strada per rispondere al problema della reticenza dei ragazzi di San Giovanni a Teduccio di andare a Ponticelli e viceversa per una forte paura, a volte anche motivata, di sconfinare in quartiere che non era il proprio. Ci siamo inventati questo laboratorio in cui rinarrare il proprio territorio sopratutto da un punto di vista emotivo, oltre che di ricerca delle bellezze nascoste, per far si che i ragazzi divenissero narratori dei propri quartieri e narratori delle bellezze nascoste non solo territoriali. Luoghi emotivamente caldi, le persone, che abbiamo chiamato monumenti umani, che rappresentano dei simboli del quartiere. Da questo laboratorio sono nati dei piccoli percorsi, dei piccoli tour che dapprima son serviti a far incontrare i ragazzi dei diversi quartieri e in secondo  luogo delle esperienze laboriali itineranti anche per persone che venivano da fuori e che volevano conoscere i territori anche in termini di esperienze di comunità educante. Lentamente è diventata una piccola occasione di impresa educativa, come la chiamiano noi, in cui queste occasioni ci hanno permesso di realizzare piccole esperienze di tirocini per ragazzi che poi sono diventati guide narranti dei quartiere per gruppi di scuole che venivano dal nord. Ci sono stati anche dei gemellaggi. In questi tour mostriamo le cose belle del territori dal punto di vista di chi ci abita, ciò che si muove tra le strade dei quartieri in cui operiamo al fine di creare dei piccoli presidi di comunità. Da una parte serve a rinarrare, a creare una diversa narrazione di questa narrazione, dall’altra a creare degli scambi con persone che vengono da fuori. Un ulteriore incontro con persone che sono portatori e portatrici di diversità.

Si è trattato di un’iniziativa anche imprenditoriale che stava crescendo molto, sempre più scuole stavano facendo richiesta per partecipare, e diventavano lentamente anche occasioni di lavoro. Purtroppo il virus questo ce l’ha proprio bloccato.

Speriamo che si possa riprendere.

Prima di salutarci però vorrei chiederti del viaggio a Salvador coi Maestri di strada, per visitare Axé. Com’è andata? Cosa ti ricordi?

Mi ricordo ogni singolo giorno, è stata un’esperienza magnifica. Se ti devo dire un ricordo che mi è rimasto proprio nel cuore, è stata l’energia che usciva dai tamburi che suonava la banda di samba che ci ha accolto quando siamo andati a visitare uno dei centri. Quella è un’energia che non sono riuscito a dimenticare, che non voglio dimenticare, perché è stata un’esperienza bellissima perchè è stata uno scambio di energie oltre che di conoscenze, di metodi, di persone e di storie. é stato uno scambio energetico. Questa è la prima cosa che dico quando mi chiedono del viaggio a Bahia. La seconda è l’oceano con le balene che abbiamo visto. 

Salvador de Bahia e Napoli condividono uno stato d’animo simile, secondo me, sebbene Salvador abbia problemi di povertà assoluta che non sono paragonabili. Ci sono situazioni veramente di grave povertà. Però ci ho visto tante somiglianze, è stato bello. è come andare in una città gemella in un’altra dimensione. Gli sguardi di alcuni di quei ragazzi erano simili agli sguardi che incontro qui a Napoli.

 

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