Dad solidale e arteducativa?

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A giudicare da quello che leggiamo e vediamo sui media, la situazione della scuola è un patchwork di chiusure, riaperture, proteste, ricorsi, e chi più ne ha più ne metta, un vero e proprio labirinto, senza che si veda un filo d’Arianna che ci permetta di uscirne. Anche se in realtà un elemento comune, qualcosa su cui tutti più o meno sono d’accordo, sembra esserci: il fallimento della DaD, della Didattica a Distanza, per lo meno nelle forme in cui è stata realizzata. Certo, non si deve dimenticare che il tutto è avvenuto in piena emergenza, senza tempo per una preparazione adeguata (anche se ormai, a distanza di dieci mesi, bisognerebbe cominciare ad abbassare i toni, altrimenti questa dell’emergenza rischia di diventare una vera e propria retorica nel senso deleterio del termine), ma rimane comunque il fatto che quasi nessuno (a parte forse il Covid, se potesse parlare, ma magari neanche lui) la vuole. Perlopiù viene considerata inefficace se non dannosa. Gli studenti stessi si sono espressi chiaramente in merito, ed essendo loro quelli che ne subiscono maggiormente le conseguenze, a breve e a lungo termine, andrebbero ascoltati.

Quello che sembrano chiedere insistentemente, in modalità di democrazia diretta (che al momento mi pare sia l’unica a loro disposizione, visto che vie formali di far sentire la propria voce non mi pare che ce ne siano, o perlomeno non fanno notizia), con tutti i limiti e i rischi che la democrazia diretta può avere, è una scuola diversa da quella che gli si sta offrendo. E allora bisognerebbe farsela la domanda: qual’è la scuola che gli stiamo offrendo? E poi, è possibile concepirne una diversa?

Ripartiamo proprio dalla DaD, scelta obbligata e forzata all’inizio della pandemia, è vero, ma che proprio per questo rischia anche di essere il frutto immaturo di una “misura di quieta disperazione”, come si disse del primo lockdown. In sostanza, la DaD è una modalità di comunicazione che pone da un lato un problema di infrastrutture per sorreggerla e veicolarla (il famoso digital divide, che riguarda sia l’hardware su cui si riceve, sia i canali attraverso cui ci si connette), sia un’attenzione al cosa viene veicolato, e come. Detto in maniera molto veloce, è chiaro che la lezione frontale, già di per se molto contestata quando si svolge in aula, in presenza, dove però ha ancora senso e valore, finisce con l’essere del tutto inutile e controproducente se trasferita meccanicamente in streaming.

Già in una precedente intervista ne avevamo parlato con Irvin Vairetti che ha precisato che in nessun caso l’attività educativa può prescindere dal “corpo a corpo”, neanche nel caso in cui la distanziazione sociale e comunicativa allontana i corpi. Posti di fronte a questa nuova sfida inaspettata, i Maestri di Strada non si sono tirati indietro, non hanno rifiutato aprioristicamente di fare didattica a distanza, anzi, pragmaticamente, hanno cercato di valorizzare quello che “era possibile, non quello che non si poteva fare”, hanno ripensato il loro modo di lavorare, per cui “gli obiettivi didattici sono nati in corsa, sono nati perché sperimentando questa forme di didattica a distanza abbiamo visto che delle possibilità c’erano, e sono nate dalla domanda implicita che abbiamo letto da parte dei ragazzi”.

In un momento in cui si cerca di dare risposta a ragazzi che in tutt’Italia protestano contro la Dad, quest’esperienza può essere di stimolo e di aiuto per uscire dalla rigidità dell’opposizione didattica a distanza/didattica in presenza. L’espressione stessa “corpo a corpo” dice qualcosa di diverso, qualcosa di più rispetto alla più consueta “didattica in presenza”. Certo, il corpo a corpo avviene più facilmente, direi più naturalmente, quando si è in presenza, ma anche in quel caso può non avvenire. Pensiamo per esempio alla lezione frontale e a come possa, anche in presenza, non coinvolgere gli studenti, non creare un corpo a corpo. In fondo la DaD non fa altro che accentuare questa mancanza di coinvolgimento fino a renderla apparentemente insostenibile per gli studenti, come molti hanno dichiarato. Corpo a corpo e presenza non sono necessariamente sinonimi, così come corpo a corpo e distanza non sono necessariamente antonimi. Il problema semmai è che in presenza il corpo a corpo avviene appunto tra corpi, ed è un modo di confrontarsi a cui siamo abituati da secoli, se non millenni, che conosciamo bene e sappiamo gestire bene, mentre nel caso della DaD, il contatto avviene anche con un terzo incomodo, ossia lo strumento che veicola la comunicazione, che comunque conserva una sua materialità di cui tener conto, con cui confrontarsi, appunto, in un nuovo tipo di  corpo a corpo. Lo strumento con cui si comunica, lo schermo con cui si interagisce, non è puramente virtuale né puramente strumentale, ha una sua materialità con cui ci si scontra, e imparare ad interagire con lo schermo è una competenza sempre più importante nella società di oggi e in quella futura, in cui la presenza del virtuale sarà sempre più forte e invasiva. Il problema, semmai, è che si tratta di uno strumento nuovo sia per gli studenti che per i docenti, sia per i nativi che per gli immigrati digitali. Nasce da qui l’esigenza, sottolineata da Irvin, di “cercare una forma di resistenza creativa e costruttiva” che permetta anche a distanza di “fare qualcosa insieme”, esigenza che è stata alla base del lavoro dei Maestri di Strada, e non solo del loro, nei mesi bui del primo lockdown.

Il tutto poi è sfociato, al momento della seconda ondata, nella DaD solidale del Comune di Napoli, una rete di “spazi educativi di prossimità rivolti alle alunne e agli alunni per i quali la DAD rischia di essere un amplificatore di disuguaglianza”, veri e propri spazi-aula distribuiti sul territorio di cui le scuole possono usufruire, dove gli alunni in difficoltà possono fare didattica a distanza con l’assistenza di educatori specializzati. Ho cercato di capire meglio di cosa si tratta parlandone con Barbara Di Domenico, responsabile della DaD solidale di Maestri di Strada. L’idea è nata da una sorta di convergenza parallela tra Cesare Moreno e il Comune di Napoli, che ad ottobre, più o meno contemporaneamente, hanno avvertito l’esigenza, di fronte alla prospettiva di nuove chiusure delle scuole appena riaperte, di aiutare i ragazzi che inevitabilmente sarebbero stati in difficoltà, come era già accaduto durante il primo lockdown.

Se a Marzo eravamo tutti impreparati e ci si è dovuti reinventare improvvisando, adesso era necessario e doveroso un approccio più organizzato per non ricadere negli stessi errori. I motivi, mi spiega Barbara, per cui i ragazzi hanno bisogno di appoggio sono vari, a partire da problemi di spazio nelle case o problemi familiari di altro tipo fino al bisogno di supporto tecnico e motivazionale. Ad alcuni si fornisce solo uno spazio, ad altri strumenti e connessione, ma perlopiù gli studenti vanno seguiti perché hanno bisogno di un tutoraggio. Al momento nel Lotto-G di Ponticelli, dove lavorano i Maestri di Strada, sono ospitati una sessantina di ragazzi e il numero tende a crescere, il che fa capire come il problema sia importante e fa anche ben sperare, in fondo.

Riflettendo su queste cose che mi ha raccontato, mi sembra che il problema non sia solo quello della solidarietà, ma della scuola in generale, che deve riuscire a sviluppare negli studenti, in tutti gli studenti, la capacità di interagire con e attraverso il virtuale, una modalità di comunicazione che, al di là della pandemia e delle quarantena, sempre più farà parte del quotidiano di tutti. E questa capacità non deve essere solo tecnica o meccanica, ma deve essere, sono convinto, “arteducativa”. La speranza infatti è che attraverso la DaD solidale la scuola tutta finisca per essere infettata dal virus dell’arteducazione. Proprio per questo l’ultima domanda che ho fatto a Barbara è se secondo lei l’esperienza di questi mesi cambierà la scuola. E questa è stata la risposta:

Difficile dirlo, dipenderà dagli insegnanti e da tutti gli operatori della scuola. Personalmente penso che se qualcosa che ti fa soffrire ti lascia solo la cattiveria, la sofferenza è stata sprecata. Ogni cosa difficile dev’essere elaborata e dev’essere trasformata affinché sia utile, se rimane solo la frustrazione è un peccato. Parlando con tante insegnanti, molte presidi, che si sono un po’ anche affidate, anche se  all’inizio erano timorose, qualcosa abbiamo lasciato. Certo non in tutti, abbiamo messo il seme ma qui il nostro compito si ferma, se vuoi far crescere la pianta è tua responsabilità. Lo spero ma non lo posso sapere. Il nostro lavoro fa tesoro di tutto ciò che accade, e a noi non ci ha lasciato indifferenti, abbiamo imparato un sacco di cose e sicuramente le metteremo in pratica quando ritorneremo in presenza. Molte insegnanti e molte presidi secondo me sono state toccate in questo modo, ma non posso parlare per tutti.

Prima si davano per scontate molte cose, forse non sarà più così.

Vi lascio con questa speranza, e con la promessa che continuerò a seguire la questione.


@Giorgio Guzzetta, responsabile della comunicazione per il Progetto Ascetate

 

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