La fotografia come sguardo su di sé e sugli altri

di

Resoconto di un laboratorio in un Piccolo Comune Welcome

Dott.ssa Giulia Tesauro
Psicologa Specializzanda in Psicoterapia Sistemica e Relazionale ad Orientamento Comunitario

“Felicità non è una meta da raggiungere, ma una casa a cui tornare. Non andare, tornare” dice così il film di Gianni Amelio La tenerezza. Andare e tornare. Due verbi che rimandano immediatamente all’esperienza del viaggio. Riprendendo una metafora cara all’approccio sistemico potremmo parlare del “viaggio di ritorno a casa”. Quando come psicologa sono stata chiamata ad organizzare un laboratorio con donne rifugiate e richiedenti asilo, essendo iscritta alla scuola di specializzazione di Caraxe, ho pensato a Bowen, uno degli autori incontrati nel primo anno di scuola. Bowen, infatti, ci insegna ad andare nel lì e allora per affrontare il qui ed ora. Questo viaggio di ritorno può essere particolarmente complicato per chi si trova a vivere un’esperienza come quella migratoria. Il viaggio fisico di allontanamento dal proprio Paese d’origine spesso preclude la possibilità di tornare a quell’origine anche interiormente, dal punto di vista metaforico. Nel caso di chi lascia il proprio Paese alla ricerca di condizioni di vita migliori, non c’è un modo univoco di rapportarsi al viaggio, che assume i contorni del viaggio per la vita. Il viaggio è accompagnato spesso dal terrore e dalla paura di morire. In alcuni casi è vissuto come liberatorio. Talvolta il viaggio rappresenta una vera e propria cesura tra una vita di prima, quella vissuta fino a quel momento nel Paese d’origine, e una vita di adesso, quella che inizia nel Paese d’arrivo. Spesso il viaggio è accompagnato da eventi traumatici, dolorosi. Scindere la vita di prima da quella di adesso, significa quindi prendere le distanze da un passato doloroso e assume una funzione protettiva nei confronti dell’economia psichica. Ma il prezzo da pagare è alto. Avviene un’accumulazione di perdite e di rotture multiple: dalla propria patria, dai propri amici e familiari. Questa serie di rotture multiple, che si può accompagnare a un senso di ingiustizia subita, può portare a una sensazione di sradicamento che rende difficile poi alla persona mettere radici nel Paese d’arrivo e affrontare lo stress legato ai difficili compiti della “nuova vita”, come cercare un lavoro o imparare una lingua, adattarsi al clima, costruire nuovi legami sociali. Spesso osserviamo nei migranti forzati atteggiamenti di abbandono di sé e di trascuratezza, come risposta all’enorme sofferenza vissuta. Come fare allora a trasformare il viaggio in un ponte tra passato e futuro, integrando quelle due vite fino ad ora scisse?

L’obiettivo di questo laboratorio dal titolo “La valigia che porto con me” è stato proprio quello di iniziare a gettare le fondamenta per la costruzione di un ponte tra queste tre dimensioni. Attivare un processo di elaborazione delle proprie radici e della propria cultura di riferimento, indagando le dimensioni di passato, presente e futuro, affinchè l’individuo possa iniziare a percepirsi come una persona unica e integrata nella sua totalità.

Protagoniste sono state cinque donne migranti, provenienti da Nigeria, Tunisia e Camerun, residenti nel Piccolo Comune Welcome di Santa Paolina, comune della provincia di Avellino, che rientra nella “Rete dei piccoli comuni Welcome” . Tra gli strumenti scelti, il ruolo principale è stato ricoperto dalla fotografia. Da tempo la psicologia di comunità, con l’utilizzo del photovoice, ci ha mostrato come la fotografia si riveli un metodo efficace per analizzare esperienze di vita quotidiana e sviluppare empowerment. La psicoterapeuta statunitense Judy Weiser con la sua pratica clinica utilizza il linguaggio fotografico come parte integrante del percorso terapeutico, considerando la fotografia un modo per avviare con i pazienti un dialogo che consenta di riportare alla memoria informazioni e ricordi rimossi. In quest’ottica il contenuto manifesto della foto diventa soltanto un punto di partenza per accedere a un linguaggio, fatto di simboli e rappresentazioni. Date queste premesse di riferimento, la prima parte del laboratorio è stata incentrata sul recupero del passato, inteso come abitudini e tradizioni della propria cultura d’origine. L’ottica in cui si è tentato questo recupero non si proponeva di essere quella buonista del “dare parola”, mettendoci quindi nella posizione di chi elargisce qualcosa, bensì si proponeva di creare quelle condizioni per cui sia l’altro a prendere parola, anche nella contraddizione, nello scontro, nella crisi. Non ho voluto iniziare un recupero di avvenimenti passati basato su esperienze dolorose e traumatiche, ma ho voluto che ognuna si sentisse libera di esprimere ciò che voleva e che il passato venisse recuperato innanzitutto come bagaglio culturale, come dimensione collettiva. Siamo partite da un cibo, l’ignam, che le ragazze hanno cucinato e fotografato, per parlare delle abitudini culinarie del proprio Paese d’origine, delle usanze, come ad esempio quelle legate al matrimonio. Due delle beneficiarie vengono dalla Nigeria, un’altra dal Camerun, quindi si sono confrontate anche sulle somiglianze e le differenze tra i due Paesi. Ognuna di loro ha raccontato le usanze e le feste del suo Paese, ne ha descritto i paesaggi e disegnato la bandiera. Mentre facevamo questo lavoro di recupero, in tutta Europa sono esplose le proteste contro le SARS, portate alla ribalta in Italia anche da alcuni calciatori nigeriani. E’ stato il punto di partenza perché le due beneficiarie nigeriane iniziassero a parlare della situazione politica del proprio Paese. Oltre al racconto delle violenze delle SARS subite da alcuni conoscenti, è emersa tutta la rabbia nei confronti di un governo che lascia vivere nella miseria il popolo, rabbia per essere state costrette ad andar via. Oltre alla rabbia, però, in una di loro c’è anche un po’ di speranza: “Le persone dicono sempre che le cose devono cambiare- dice- e poi non cambiano mai. Adesso però la gente si sta svegliando e sta iniziando a lottare per i suoi diritti”. A quel punto la riflessione si è spostata su quali sono i diritti che sentono di avere. In un altro momento del laboratorio abbiamo osservato le fotografie di alcuni autori famosi e ognuna era chiamata a esprimere ciò che quella foto evocava in lei, a provare ad immaginare le storie dei personaggi ritratti. Si tratta di una tecnica proiettiva, in cui la foto svolge una funzione di medium, consentendo alla persona di parlare di sé senza farlo esplicitamente. La fase di recupero del passato si è conclusa con un’attività in cui le ragazze sono state chiamate a scegliere una parola del proprio passato da voler portare con sé, per riempire una valigia immaginaria con cui affrontare il viaggio. Una di loro, ad esempio, ha scelto di portare con sé “le storie dei nonni”, riferendosi a un’abitudine propria del suo villaggio, in cui i bambini e i ragazzi si mettevano a sedere in cerchio attorno agli anziani, che raccontavano loro le storie sulla nascita del villaggio. Altre hanno parlato della famiglia e degli amici. Dopo il passato, il viaggio è proseguito verso la dimensione del presente. Il primo focus del presente è stato rivolto al contesto in cui vivono. Le partecipanti hanno scritto un elenco delle cose che considerano positive di Santa Paolina e di quelle negative. Tra le cose negative hanno lamentato i problemi con la connessione internet, che rende più difficile seguire la didattica a distanza, la difficoltà di stare chiusa in casa per il Covid, la scarsità dei collegamenti per raggiungere le città più vicine, la solitudine e la paura quando scende la sera e per strada non si sente neanche un rumore, i prezzi alti per la spesa, ma anche il pensiero di dover un giorno lasciare questo posto perché il proprio futuro è incerto. Tra le cose positive, invece, hanno parlato della possibilità di seguire le lezioni e imparare l’italiano, della gentilezza degli operatori, della libertà di esprimersi o di camminare mano nella mano con il proprio marito, della calma e della bellezza della natura, della possibilità di fare lunghe passeggiate, della gente del posto che sorride e saluta sempre e non le fa sentire straniere. Questo elenco di cose individuate ha fatto poi da traccia per un giro fotografico nel paese. Fotocamera alla mano, le ragazze hanno immortalato ciò che avevano elencato a parole. Successivamente, abbiamo osservato le foto scattate, riflettendo sul perché di quelle foto e scrivendo delle didascalie che ne spiegassero il significato. Le foto hanno consentito anche di esplorare altri due punti della dimensione “presente”: se stesse nel qui ed ora e le proprie relazioni interpersonali. Un elemento comune emerso è il profondo senso di solitudine che tutte loro vivono. Tutte hanno detto di avere rapporti pacifici e cordiali con gli abitanti del paese, ma di non aver instaurato un legame più profondo con nessuno di loro. Alla mia domanda “Quali sono le persone su cui senti di poter contare?” hanno risposto parlando di fratelli lasciati nel proprio Paese d’origine, di amici che vivono in varie zone d’Europa e che sentono via Skype. Nessuna ha parlato di relazioni in carne ed ossa vissute nel presente, tranne una delle beneficiarie che ha parlato del marito. Sanno che per qualsiasi problema possono rivolgersi agli operatori dello Sprar, ma considerano queste relazioni delle relazioni impostate per motivi professionali da parte degli operatori e quindi non autentiche: “Qua ci sono persone che fanno il loro lavoro, se ho un problema con la casa o che non capisco le chiamo, ma se ho un problema personale non posso parlarne(…) Un’ amica è diversa da una persona che ti ascolta perché è il suo lavoro farlo, come un’assistente sociale o una psicologa. Parlare delle cose che veramente ti fanno stare male è difficile, devi farlo con una persona che ti conosce bene e che tu conosci bene, con cui c’è una relazione di amicizia e non professionale. Uno psicologo ti ascolta perché deve, perché è il suo lavoro. E tu devi raccontargli un po’ di cose per lasciargli fare il suo lavoro. Però non è come parlare con una persona di cui ti fidi. A me piacerebbe fare nuove amicizie, conoscere persone, uscire con loro, bere un caffè, però ora stiamo chiusi in casa e non vediamo nessuno.” Per quanto riguarda l’immagine di sé, di grande aiuto è stato l’utilizzo della fotografia. Durante alcuni momenti del laboratorio le ragazze si sono fotografate a vicenda e sono state da me fotografate. Le foto poi sono state stampate e ognuna è stata chiamata a scegliere una foto che rappresentava una parte di se stessa che le piace e un’altra che non le piace e poi è stato chiesto di farle dialogare tra di loro. In questo modo la fotografia è stata usata come medium per fare emergere in maniera indiretta contenuti che altrimenti sarebbe stato più complicato portare fuori. La foto ha quindi rappresentato uno strumento terzo attraverso cui poter parlare di sé. Così è stato possibile avvicinare anche i propri stati d’animo relativi al presente. “Io sono felice, ma non sto bene. Ho sempre mal di testa” dice una delle beneficiarie. Un’altra ancora: “Io sono stressata, penso troppo. Penso a tutta la situazione che abbiamo, a se dopo le cose non vanno bene, se non ci danno i documenti non possiamo stare qui, non possiamo trovare un lavoro. Ho paura”, ma anche “Io mi sento libera, da quando sono arrivata qua mi sento libera, più tranquilla, sento che le cose negative stanno piano piano andando via. Tranquilla e libera”.

L’incognita del futuro, che non dipende unicamente dalla propria volontà, è una preoccupazione forte che in alcuni casi incombe sul presente e non consente di viverlo pienamente: “A volte la mattina mi sveglio e dico a mio marito “Oggi andiamo a fare una passeggiata”, poi inizio a pensare e mi passa la voglia, voglio solo dormire. Questi pensieri non mi fanno approfittare delle cose. Vorrei andare a correre, a camminare in montagna, andare in giro, conoscere i paesi attorno. Queste cose ho voglia di farle, ma mi manca il coraggio. La paura del futuro non mi fa vivere il presente. E’ difficile. A volte mi dico “lascia stare, non pensare a queste cose”, ma i pensieri arrivano, la mia testa non va bene. Il problema è che non hai idea di cosa fare se le cose vanno male, se non ci danno i documenti. Io so che devo fare se ci danno i documenti, ma se non ce li danno che devo fare? E poi io in Tunisia stavo male, non ero più una persona, avevo dei problemi. Se dopo va male io devo tornare in quella situazione e non sono più capace di sopportare. Non ho più forza. Mi sento perduta.” In altri casi, però, il futuro rappresenta la speranza che le sostiene nei momenti difficili e che prende corpo nei volti dei propri figli: “Sono felice, perché quando vedo il mio bambino sono felice sempre. Penso che crescerà, che imparerà a camminare, andrà a scuola”. Spesso questa dimensione di fiducia nel futuro viene inghiottita dalla paura e dalle preoccupazioni, perciò è su questo aspetto che abbiamo cercato di insistere, dando spazio ai sogni e alle aspettative che poi vanno ad orientare il proprio agire quotidiano. Approfittando dell’avvicinarsi del Natale, con l’aiuto di altri residenti e dei ragazzi del servizio civile, è stata costruita una barca, esposta fuori all’ufficio della pro loco del paese. A questa barca ognuna ha appeso dei bigliettini con su scritti i propri desideri relativi all’anno nuovo e al futuro. Abbiamo pensato a questa attività per alleggerire il discorso su un argomento, quello del futuro, carico di angosce e per consentire così alle beneficiarie di poter per un momento dare libero spazio alla fantasia, come in un gioco. La barca è diventata così metafora del viaggio, tema centrale del laboratorio, inteso non solo come il viaggio che hanno affrontato per venire in Europa, ma anche come il viaggio che faranno le loro speranze e quello che le ha condotte nelle tre dimensioni della propria vita, di passato, presente e futuro. Questa metafora del viaggio è stata ripresa anche nell’ultimo incontro del laboratorio. Come momento di chiusura e restituzione, ogni partecipante ha disegnato su un cartellone una valigia da riempire con foto e scritte che rappresentassero tutto ciò che volevano portare con loro. Simbolicamente è stato un modo anche per chiedersi cosa portare via da questo percorso e per iniziare a far prendere corpo al proprio bagaglio personale. In conclusione, personalmente posso affermare che questo laboratorio è stato anche uno spazio dove poter sperimentare come l’approccio sistemico si applichi ad una molteplicità di contesti e situazioni che vanno oltre la stanza di terapia tradizionalmente intesa.

Bibliografia:

  • M. Bowen Dalla famiglia all’individuo. La differenziazione del sé nel sistema familiare, Astrolabio, Roma 1979
  • Mastrilli P., Nicosia R., Santinello M., Photovoice. Dallo scatto fotografico all’azione sociale, Franco Angeli editore
  • Papadopoulos R.K., L’assistenza terapeutica ai rifugiati. Nessun luogo è come casa propria, edizioni Magi
  • Weiser J., Fototerapia. Tecniche e strumenti per la clinica e gli interventi sul campo, Franco Angeli editore

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