Luciana Delle Donne e il “metodo Montessori per adulti”: trasformare le debolezze in punti di forza

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Luciana Delle Donne, fondatrice di “Made in carcere” Onlus, recentemente insignita del titolo di “Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana”.

  Luciana già meritevole di altri importanti riconoscimenti come: “Change Maker” di ASHOKA nel mondo, GREEN HEROES del KYOTO CLUB ha semplicemente seguito il sogno e la sua visione di vita. Grazie al suo istinto ha imparato il valore e la ricchezza dell’umiltà. “Essere al servizio degli altri, facendomi attraversare dal bisogno delle persone – e non solo quelle in stato di detenzione – è il mio lavoro di ogni giorno. Cerchiamo di aiutare sempre tutti quelli che bussano alla nostra porta. Soprattutto i giovani che spesso non hanno ancora consapevolezza delle loro potenzialità e non sanno più sognare e desiderare nulla per il loro futuro personale e sociale” Il nostro motto è: “trasformare le debolezze della vita in punti di forza” con amore, impegno e ingegno. In questa intervista ci racconta come questa azione si traduce nel concreto.

 

 

M: Luciana, sono trascorsi ormai 17 anni da quella che potremmo definire la tua “rinascita” o – come ami dire tu – la tua seconda vita, che ricordi hai del primo periodo a Lecce? Quali sono state le difficoltà incontrate per far nascere e crescere Made in Carcere?

L: Il primo grande problema era nominare la parola CARCERE, nessuno ne voleva sentir parlare e nel carcere nessuno voleva sentir parlare di lavoro. E stata molto dura, la prima direttrice con cui mi sono confrontata a Lecce, la Dott.ssa Piccinni, fu l’unica a sostenere la nostra iniziativa e insieme, nonostante le avversità, con varie peripezie siamo riuscite a far accettare questa “intrusione”: un gruppo di donne coese e determinate, ingredienti utili per un mix esplosivo.

 

M: Puoi raccontarci una tua giornata tipo tra l’organizzazione di Officina Creativa e il carcere?

L: Purtroppo, non riesco ad andare spesso in carcere poiché sono spesso in giro per l’Italia per promuovere all’esterno il progetto, ma trascorrere del tempo con le donne lavoratrici in carcere sono i momenti più belli per me, i più significativi. Nel complesso fare Impresa Sociale in carcere parrebbe un ossimoro, perché o è impresa o è sociale. Le relazioni sono abbastanza lineari perché rispettiamo il linguaggio della sicurezza che vince sempre sulle esigenze di impresa. Le mie giornate sono sempre convulse, spese tra incombenze creative ed organizzative.  e la necessaria rigidità degli orari di accesso al carcere costringe tutto il gruppo al massimo impegno per rifornire i materiali necessari a sostenere le produzioni. È difficile trovare un equilibrio in queste fasi apparentemente semplici poiché dobbiamo anche tenere conto della nostra scelta di campo di utilizzare solo materiale scartato dalla moda  e recuperato. La giornata lavorativa inizia molto presto e difficilmente posso prevedere quando finirà.

M: Immagino che nei lunghi periodi di collaborazione con i detenuti che lavorano con te si crei poi un rapporto, avrai sentito e vissuto in tutti questi anni tantissime storie. A quale ti senti più legata e perché?

L: Non ho una storia particolare, tutte quelle che incontro sono tutte estremamente singolari, uniche e ricche di insegnamenti. In linea di massima ho riscontrato che è soprattutto l’ambiente in cui queste persone hanno vissuto ad aver generato le premesse per commettere i reati che li hanno poi condotti in carcere. Ci sentiamo tutti fratelli e sorelle, componenti di una famiglia allargata e accogliente, dove nessuno giudica l’altro. La più grande soddisfazione è stata quella di aver trovato una borsa di studio per offrire alla figlia di una collega (sarta detenuta) una borsa di studio per completare la laurea magistrale.

 

M: Nella reciprocità dello scambio con i detenuti cosa ritieni di aver imparato?

L: Che solo con l’amore e la pazienza si possono ottenere risultati. Nella prima vita, infatti, ero ambiziosa e tremendamente esigente. Ora mi sento umile al servizio dei più deboli ma soprattutto molto paziente. L’unica cosa che non cambia però è il tempo che passa troppo in fretta.

 

M: Si è parlato molto del progetto Made in Carcere come del nuovo metodo Montessori per adulti e hai avviato con il sostegno di Fondazione con il sud un interessante progetto di ricerca in collaborazione con l’Univeristà Cattolica di Milano, cosa è emerso dalle vostre indagini?

L: La cosa più interessante in questa esperienza è quella di trovare sempre una soluzione ad ogni cosa. Quando sei sulla torre non c’è posto per l’indecisione e la procrastinazione. Bisogna agire in fretta e con la consapevolezza che non esiste (o qui non ce lo possiamo permettere) la perfezione. Esiste la sopravvivenza, una sopravvivenza creativa, che aiuta a combattere l’abbandono della speranza e del sogno. Sono diversi anni che emerge sempre di più la correttezza delle nostre scelte. Vediamo il cambiamento continuo e notiamo subito la differenza tra le persone che lavorano e quelle che non lavorano.  La privazione della libertà dovrebbe essere l’unica forma di “punizione” al reato. Il carcere dovrebbe servire ad acquisire una nuova dignità e identità. Per conferire sistematicità a questa nostra consapevolezza registrata in anni e anni di lavoro sul campo abbiamo – grazie al supporto di Fondazione con il Sud e in collaborazione con l’Università Cattolica di Milano – avviato un progetto di ricerca che sta dando dei risultati importanti in termini di modellizzazione dell’intervento in carcere. I risultati dello studio saranno oggetto di una pubblicazione che a breve sarà presentata e il mio auspicio è quello che possano “copiarci” e moltiplicare in altre realtà carcerarie un modello che, ad oggi, ha funzionato tanto da annullare il tasso di recidiva a fine pena.

 

Micol Ferrara

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