Persone senza dimora: ricominciare dalla casa

Intervento di Caterina Cortese, Ufficio Ricerca fio.PSD, all’incontro formativo del progetto Amplicasa che si è svolto il 16 e 17 febbraio 2018 a Roma

fio.PSD è la Federazione italiana Organismi per le Persone senza Fissa Dimora ed è costituita da oltre 120 organizzazioni che lavorano appunto con i senza dimora, quindi con persone fragili, in situazione di grave marginalità: i cosiddetti invisibili, persone che hanno perso molto. Come rete nazionale portiamo avanti diverse azioni di advocacy e di formazione. Lavoriamo molto con Ministeri ed enti locali per sensibilizzarli ai nostri temi. Facciamo progettazione, networking – che nel lavoro sociale è sempre indispensabile, partendo da un atteggiamento di ascolto, di curiosità, di empatia – a livello sia nazionale che europeo. Facciamo anche molta formazione, perché crediamo che quelli della formazione siano momenti, oltre che di condivisione, in cui si fa il punto, ci si ferma un attimo e si costruiscono insieme saperi, partendo dalle concettualizzazioni, dalle esperienze.

I nostri soci – cooperative, associazioni, enti religiosi, fondazioni, enti pubblici… – offrono servizi di accompagnamento, counseling, accoglienza notturna (il classico dormitorio), ma anche centri diurni, quindi socializzanti, che promuovono l’integrazione e l’attivazione.

 

Chi sono i senza dimora 

Quattro anni fa è stato fatto il primo censimento nazionale delle persone senza dimora: secondo Istat in Italia sono quasi 51mila, che se paragonati ai milioni di poveri assoluti possono sembrare una goccia nel mare, ma sono quelli che stanno peggio. Cioè sono le persone che hanno fragilità importanti.

Per lo più si tratta di uomini (85%), le donne sono meno, ma hanno storie con fragilità importanti: sono vittime di violenza o hanno subito abusi, oppure hanno dipendenze da psicofarmaci, o da alcol o da droghe. Sono italiani nel 42% dei casi, hanno un’età media di 45 anni e il numero dei giovani aumenta anche perché alimentato dai diciottenni che escono dalle case famiglia e non sanno dove andare.

Nella maggior parte dei casi, queste persone avevano una casa, un lavoro e una famiglia (70%) e il 40% vive in strada da almeno 4 anni. Circa 7 mila di loro (14%) ha seri problemi psichici o di dipendenza, più della metà ha un lavoro precario, una piccola pensione o vive di espedienti, collette, elemosine. La maggior parte dei casi (6 su 10) frequentano “regolarmente” un dormitorio (solo 3 su 10 dormono in stazione). Il 40% frequenta le accoglienze diurne.

Il network housing first in Italia

Tra il 2014 e il 2016 abbiamo sperimentato un programma nazionale di diffusione dell’approccio Housing first. È un grosso progetto, che ha coinvolto molti soggetti diversi: Comuni e Regioni, associazioni e operatori, ricercatori e volontari.

Le persone accolte nei progetti di housing first sono persone che avevano una casa, una famiglia, una vita normale, ma ad un certo punto si è rotto qualche cosa: una malattia, la perdita del lavoro, il gioco d’azzardo, la droga e quindi poi la separazione…. Così sono finite in strada. Sono persone molto fragili, che vivono in strada da almeno 4 anni e quindi hanno accumulato una serie di cronicità, che le rende più difficilmente avvicinabili.

Housing first, letteralmente, vuol dire “prima la casa”. Nel modo tradizionale di lavorare, per le persone senza dimora la casa è l’ultimo gradino di un percorso: la persona viene accolta nei dormitori, fa i colloqui con gli assistenti sociali, se si comporta bene, se non si droga, se fa tutti i passi previsti, poi avrà la casa. È un percorso che può durare anche 10 anni, e non è detto che vada a buon fine. Invece in America, negli anni 90, quando c’era un problema molto importante di persone che vivevano in strada e anche di persone con problemi di salute mentale, si è pensato di rovesciare l’approccio, portando queste persone direttamente in una casa: subito dalla strada alla casa. Dunque, la casa è la prima risposta, la prima forma di accoglienza vera. Da lì si parte per un percorso di inclusione sociale, riduzione del danno, eccetera. Questo paradigma è sembrato funzionare negli Stati Uniti e poi in Canada e infine è arrivato in Europa.

La casa è un diritto umano di base, quindi è il primo passo. È una differenza paradigmatica importante, perché ribalta la prospettiva del lavoro sociale. Si dà alla persona il diritto di scegliere, la possibilità di autodeterminarsi. L’operatore chiede alla persona per strada: c’è una casa per te, la vuoi? Lascia libera la persona di scegliere anche di dire di no (perché non si fida, perché ha paura, perché in quel momento è particolarmente fragile…).

Si distingue quindi tra la soluzione abitativa e il trattamento psicologico o anche di disintossicazione, e c’è un orientamento alla recovery. Il termine recovery indica il processo di risalita, il percorso per riportare la persona a una “normalità”. Questo termine non mi piace tanto, ma il termine usato abitualmente è quello di  normalisation, cioè con housing first c’è il tentativo di riportare la persona a una condizione di vita dignitosa, umana, libera, dandole la possibilità di vivere la propria abitazione e anche il quartiere. C’è poi un approccio di riduzione del danno e c’è un coinvolgimento della persona, perché la persona non viene abbandonata. Anzi usando un approccio assertivo ma non coercitivo, la persona viene accompagnata con visite a casa. L’operatore prende appuntamento, spesso mangia i pasti cucinati dalle persone accolte in casa… Tutto questo per tutto il tempo necessario.

 I numeri del progetto

Avendo verificato che il paradigma housing first in Europa funziona, nel 2014 abbiamo chiesto ai membri della nostra rete se c’era una disponibilità a sperimentare l’approccio: hanno risposto 54 associazioni, che hanno costruito 35 progetti in dieci regioni e 27 Comuni. Abbiamo coinvolto molti volontari, che sono stati essenziali nella fase di accompagnamento, ma non solo. Lavorano inoltre a questi progetti oltre 120 operatori e abbiamo creato anche un’équipe di ricerca, che ha studiato i risultati dei progetti.

I nostri soci hanno accolto più di cinquecento persone, tra cui 77 famiglie, perché in Italia c’è un problema di housing anche legato alle famiglie, soprattutto al Sud. Oltre il 50% erano persone che vivevano completamente in strada. L’housing first è un paradigma sfidante.

Per accogliere queste persone sono stati necessari 186 appartamenti, che per lo più sono stati reperiti sul mercato privato, e questa è stata l’altra grande sfida: chi entra nel progetto di housing first deve compartecipare alle spese. I progetti hanno dovuto autofinanziarsi, anche perché nel 2014 non c’erano finanziamenti pubblici, mentre oggi ci sono. Il dato positivo è che molte cooperative sono riuscite a investire in housing first, a convincere le agenzie immobiliari ad affittare appartamenti, ponendosi come intermediarie. Alcune Caritas hanno messo a disposizione canoniche; altre case, soprattutto a Torino, erano di edilizia pubblica, non più adeguate a target familiari, ma adatte a persone singole.

 La coabitazione

In media sono state collocate due persone in ogni casa. Il paradigma dell’housing first non esclude la coabitazione.

La coabitazione funziona, quando le persone decidono di condividere. Immaginiamo questo target, molto problematico, molto fragile… in alcuni casi il co-housing non ha funzionato. Inoltre la cronicità e anni di assistenzialismo ingabbiante hanno fatto sì che la persona cercasse continue intermediazioni con il coinquilino, rifiutando di affrontare direttamente con lui i problemi. Una mancanza di comunicazione, prima che di condivisione.

Ci sono però anche esperienze felici. A Torino per esempio c’è un co-housing di una coppia nata in strada, un uomo e una donna che si sono innamorati in età avanzata e sono andati a convivere in housing first.

Complessivamente comunque le cose vanno abbastanza bene, nel senso che, una volta messe in casa, queste persone ci rimangono. In alcuni casi – soprattutto le donne – sono poi uscite dal progetto perché si sono rese completamente autonome: hanno trovato lavoro, si sono ricongiunte con un familiare, hanno ritrovato un’amica…

Questi progetti portano integrazione (il 73% delle persone accolte stabilisce relazioni nel quartiere), salute e benessere (il 78% si sente a casa e mostra condizioni stabili di benessere), stabilità (l’82% mantiene la casa a distanza di un anno) e qualità (il 90% è soddisfatto della casa, del progetto, delle persone che le accompagnano).

I libri e le fotografie

I progetti sono ancora tutti attivi, anzi, il Ministero ha stanziato fondi invitando i Comuni a fare housing first (l’idea in qualche modo è entrata nella agenda politica).

Abbiamo anche pubblicato due volumi su questa esperienza:

  • Cortese C. (a cura di), Scenari e pratiche dell’Housing First. Una nuova via dell’accoglienza per la grave emarginazione adulta in Italia, Franco Angeli, 2016.
  • Molinari P., Zenarolla A., Prima la casa. La sperimentazione HousingFirst in Italia, Franco Angeli, 2018.

fio.PSD ha anche promosso un worskshop fotografico, che ha coinvolto fotografi amatoriali di Genova che hanno fotografato le persone senza dimora accolte nei progetti di housing first  Abi.To – Torino; Il Samaritano – Verona, Piazza Grande – Bologna; Fondazione Auxilium – Genova; Opera San Francesco – Milano; Progetto Arca – Milano; I Tetti Colorati – Ragusa; Caritas Clodiense – Chioggia.

 

 

 

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