Michele Vietti: “La fatica dei giusti. Come la giustizia può funzionare”


I giudici italiani sono tutt’altro che scansafatiche: nel 2008, i civilisti hanno portato a termine circa 1 milione di cause in più rispetto ai colleghi europei considerati dal Rapporto Cepej 2010, ponendosi al secondo posto per produttività dopo gli omologhi russi. Allo stesso tempo, però, i nostri tribunali scontano il peso del maggior numero di cause ancora pendenti, 4 milioni nel civile. A fare chiarezza sul mondo della magistratura italiana, descrivendone accesso, organizzazione, caratteristiche, evidenziandone le difficoltà ma anche sfatando, dati alla mano, alcuni miti in negativo, è il recente volume che Michele Vietti, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, ha pubblicato per Egea (La fatica dei giusti. Come la giustizia può funzionare, Università Bocconi editore, 2011, 178 pagg. 16 euro).

 

Nel pamphlet di Vietti tutti i grandi temi caldi dell’attuale dibattito che investe il potere giudiziario sono trattati con il desiderio di tenersi lontano dalla partigianeria, ma partendo da fatti e cercando, là dove possibile, di presentare possibili soluzioni, anche attraverso la descrizione di best practice internazionali.

 

È così che emerge, in particolare nel secondo dei tre capitoli che completano la ‘fatica’ di Vietti, tutta una serie di dati che evidenziano come la magistratura italiana non meriti alcune delle critiche che le si rivolgono. Non è vero, ad esempio, che i nostri giudici sono molti e improduttivi: “L’Italia conta 10,2 giudici ogni 100 mila abitanti contro una media europea di 18”, scrive l’autore. “È in 22ma posizione sui 29 paesi considerati. Un rapporto ancor più ridotto se si considerano i pubblici ministeri: qui il nostro paese scende in quart’ultima posizione con 3,4 magistrati per 100 mila abitanti su una media continentale di 10,2”. I dati sulla produttività sono ancora più significativi. Nel civile (dati 2008), con i quasi 2,7 milioni di procedimenti definiti, i giudici italiani sono al secondo posto dopo la Russia per numero di cause risolte, prima di Francia (con 1,65 milioni circa) e Spagna (1,32 milioni circa), mentre nel penale il nostro paese è addirittura primo per numero di procedimenti portati a termine, con 1,2 milioni rispetto ai circa 760 mila della Turchia, seconda, e ai 618 mila della Francia, terza (dato 2008).

 

Semmai il problema, e sempre dati alla mano Vietti lo mostra in tutta la sua evidenza, è che le aule dei tribunali civili e penali sono invase ogni anno da un numero esorbitante di nuove cause, tanto che, nonostante la produttività superiore alla media dei giudici italiani, il saldo tra il ‘fatto’ e il ‘da fare’ rimane negativo. A questo si aggiunge l’enorme mole di arretrato che grava sul sistema: quasi 4 milioni di cause nel civile e 1,2 milioni nel penale (dati 2008), che fanno dell’Italia il primo paese, tra quelli considerati dal Rapporto Cepej, per numero di cause ancora pendenti.

 

Ogni anno giungono sulle nuove scrivanie di giudici civili oltre 2,8 milioni di nuovi fascicoli; 1,2 su quelle dei penalisti. Ma da cosa deriva questa enorme richiesta di giustizia in Italia?

Al di là di possibili elementi sociologici che pure l’autore evidenzia, c’è un elemento che va considerato: il grande numero di avvocati presenti in Italia, superiore a quello degli altri paesi considerati. Tuttavia, il nesso causale tra i due dati, il numero di nuove cause e quello di avvocati, non è di facile identificazione; in pratica “ci troviamo davanti alla tipica questione dell’uovo e della gallina: abbiamo tanti avvocati perché c’è molto contenzioso o abbiamo molto contenzioso perché abbiamo tanti avvocati?”, si domanda Vietti.

 

Tante le questioni che contribuiscono a rendere lento il sistema giustizia e che sono analizzate dal vicepresidente del Csm: dalla mancanza di sistemi di filtro in ingresso, ad un orientamento culturale che vede nel processo l’unico sistema di regolazione dei conflitti, a tutta una serie di nodi organizzativi ancora da risolvere. Tra gli altri, la carenza di organico, stimabile in circa il 14%, e la necessità di una revisione della mappa dei tribunali e delle corti d’appello sul territorio. “Le 1.300 posizioni scoperte”, scrive Vietti, “potrebbero essere molte meno se tale mappa territoriale fosse radicalmente rivista alla luce del diverso assetto socio-economico del paese. Le nostre circoscrizioni giudiziarie risalgono all’Ottocento, sono il frutto di un’economia agricola”.

Altro elemento sul quale la politica ha spesso puntato il dito per criticare l’operato della magistratura è quello, molto dibattuto, della separazione delle carriere: qui Vietti, oltre a mostrare come tale netta divisione non sia affatto la panacea prospettata, evidenzia quanto, nei fatti, il cambio di funzioni sia ormai un’ipotesi assolutamente marginale.

 

“Mi auguro che la ‘fatica’ di Vietti”, scrive nella prefazione Ernesto Lupo, primo presidente della Corte di Cassazione, “contribuisca a indirizzare il dibattito politico verso la funzionalità del servizio-giustizia, nella consapevolezza che una certa tensione tra magistratura e poteri dello Stato (presente non soltanto in Italia) è fisiologica rispetto al ruolo di controllo esercitato dalla prima istituzione”. Peraltro, “partire dalle indicazioni di Vietti”, aggiunge il procuratore generale presso al Corte di Cassazione Vitaliano Esposito nella sua postfazione al volume, “potrebbe essere l’occasione per abbandonare sterili polemiche e fornire strumenti di lettura prima e di azione poi in grado di invertire la tendenza e consentire alla macchina della giustizia di ricominciare a funzionare, riportando l’Italia nel plotone di testa dei paesi europei”.

 

Michele Vietti, avvocato civilista, è stato eletto alla Camera per quattro legislature, ha svolto ruoli di governo ed è stato presidente delle Commissioni di riforma del diritto societario e fallimentare. Svolge attività di docenza presso diversi atenei. È vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura.

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