Protagonisti – Paola (Prima Parte) “Partecipare A FSOA Per Noi È Un Valore Aggiunto”

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“Sono fortunata, faccio un lavoro che mi piace. Se così non fosse sarebbe impossibile svolgerlo” confida Paola, coordinatore di Progetto presso il SIPROIMI (ex progetto SPRAR) per MSNA di Vittoria gestito dalla Cooperativa Fo.Co., nonché parte della rete di Fare Sistema Oltre l’Accoglienza. In questa bella e lunga chiacchierata, Paola ci racconta del suo lavoro, delle paure iniziali, di alcune difficoltà che a volte si incontrano, ma anche delle soddisfazioni professionali e personali. L’intervista è divisa in due, quindi dopo aver letto questa parte, non perdete la prossima puntata!

Quando hai iniziato a lavorare nel terzo settore?
Sono una psicologa. Ho iniziato a fare supervisione di equipe in una struttura, poi nel giugno 2018 doveva andar via il direttore di progetto che c’era in quel momento e io sono subentrata al suo posto.

Quali sono le prime difficoltà che hai incontrato?
Era la prima volta che mi rapportavo direttamente con i ragazzi di una struttura come questa. Mi avvicinavo a un mondo che fino ad allora avevo visto solo da lontano e che non conoscevo. Avevo quindi delle preoccupazioni che poi si sono rivelate infondate. Per esempio mi impensieriva la lingua. Mi dicevo “come farò a farmi capire dai ragazzi? A parlare con loro?”. Mi sembrava un limite. Invece mi sono accorta che la lingua era – ed è – l’ultima cosa di cui preoccuparsi. Con i ragazzi parli con gli occhi, parli lo sguardo, con i gesti.

Avevi anche delle paure?
Sì, c’erano anche quelle. L’idea di dover stare da sola in una struttura con dei ragazzi grandi mi metteva a disagio. Ma era un pregiudizio. Ero quasi sollevata di essere un direttore di progetto e non un educatore. Poi, invece, figurati, quando li conosci questa paura la annulli completamente.

Quanti sono i ragazzi nel SIPROIMI di Vittoria coordinato da te?
Il Progetto si compone di 24 soggetti, di cui 16 minori e otto neomaggiorenni, cioè ragazzi che hanno compiuto 18 anni negli ultimi sei mesi. Essere direttore, prendere delle decisioni che li coinvolgono, è una grande responsabilità. All’inizio soprattutto è un grande carico professionale.

Un direttore di progetto quali prerogative deve avere?
La mediazione, senz’altro. Devi mediare tra tantissime cose: con le istituzioni, tra colleghi, con i partner, con i ragazzi.

Ci si riesce?
Devi riuscirci. Non sempre è facile, ma è necessario. Devi saper calibrare di volta in volta la tua capacità di mediare, perché l’equipe cambia, i ragazzi cambiano, i funzionari cambiano. Ogni situazione ti impone di rapportarti in maniera diversa.

E poi?
Aggiungerei l’empatia con tutti. Dovresti sempre metterti nei panni di chi hai di fronte per poter capire cosa ti vuole dire l’altro – chiunque egli sia – in quel momento.

Quali sono gli obiettivi da raggiungere?
L’obiettivo principale deve essere sempre quello dell’autonomia per ciascuno di loro. Bisogna credere che ognuno possa riuscirci. Il mio lavoro consiste proprio nell’accompagnare i ragazzi in questo percorso. È ovvio che i passi – uno alla volta – vanno fatti insieme. Si comincia con il disbrigo dei documenti, la formazione, poi l’inserimento lavorativo, che dipende anche da quello che vuole il ragazzo, le sue doti, il suo talento, il suo saper fare, la sua voglia di apprendimento e, non ultimo, da quello che offre il territorio. Ciascun ragazzo è seguito da un educatore. Il mio compito è quello di supervisionare. Dal punto di vista emotivo non sono direttamente coinvolta, io devo fare in modo che tutto proceda bene. Se c’è qualcosa di storto nella traiettoria vai lì e l’aggiusti, dove è fattibile.

Però conosci le storie dei ragazzi che vengono accolti nel SIPROIMI?
Certo, perché l’educatore che li segue si confronta con me. Devi necessariamente conoscere da dove vengono, il loro passato, la loro situazione attuale. Ma è raro che un ragazzo si apra con me di cose sue personali dopo che magari l’ha già fatto con l’operatore. I colloqui con me sono abbastanza formali e io non voglio entrare nel vivo delle loro storie, perché sarebbe come invadere un campo privato.

Che progetti di vita hanno in genere i ragazzi che accogliete? Come immaginano il loro futuro?
Spesso arrivano con il progetto ben definito di lasciare l’Italia. Secondo loro l’Italia è solo una terra di passaggio: già sanno che una volta sistemata la questione dei documenti e dell’età – cioè quando diventano maggiorenni – andranno all’estero. La loro ambizione è quella di “arrivare in Europa”, come dicono spesso. Qualcuno raramente rimane anche dopo l’accoglienza. C’è per esempio un ragazzo che è qui con noi, per il quale abbiamo chiesto il prosieguo amministrativo fino ai 21 anni, che vuole rimanere: ha preso il diploma di terza media, desidera continuare a studiare e diventare carabiniere. Intanto sta lavorando. Mi ha detto “la campagna non è il massimo per me, però mi aiuta a sostenere la famiglia in Africa e a realizzare i miei sogni”. Si fida di noi. È giusto che provi a inseguire le sue aspirazioni e che non molli.

Paola, cos’è che ti dà più soddisfazione in questo lavoro?
Vedere i ragazzi realizzati. Aiutarli a ottenere non solo il permesso di soggiorno che è sì importante a livello burocratico, ma saperli contenti. Quando capiscono che il lavoro che fai lo svolgi con passione, quello sì che mi rende contenta, non per sentirmi dire grazie, ma perché significa che sei entrata in sintonia con il ragazzo. Quando non funziona qualcosa, per un motivo qualsiasi, se la prendono con me: “Paola no buona”, mi dicono. Fargli capire che non sono io che decido spostamenti, tempi, burocrazie è molto complicato.

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