Abiteresti con me?

Intervento di Angela Bagnato, dell’associazione Solaris di Roma, all’incontro formativo del progetto Amplicasa che si è svolto il 16 e 17 febbraio 2018 a Roma

Da una parte l’esigenza di uno spazio abitativo privato e dall’altro la possibilità di uno spazio condiviso, quindi di relazioni, di socialità. Queste due caratteristiche ci hanno fatto pensare, nel 2003, che una certa forma di cohousing potesse essere una soluzione per i pazienti psichiatrici. Così è nato il progetto “Le chiavi di casa”, che cercava appunto una risposta al tema dell’abitare per quei pazienti che, dopo avere concluso il proprio percorso in una comunità terapeutica o in strutture residenziali, sono pronti a tornare a vivere in appartamento.

 

Un passaggio difficile

Si tratta di un passaggio molto duro, e a volte poco considerato nella sua complessità, perché “abitare” ha tanti significati. Ognuno di noi proietta sull’idea di abitare desideri, paure, emozioni diverse. I pazienti psichiatrici, ad esempio, potevano venire da situazioni in cui la casa c’era, ma la dimensione abitativa si restringeva alla propria stanza, da cui non volevano uscire. E c’erano invece situazioni quasi opposte, in cui la dimensione abitativa era quella della strada. E poi c’era stato un passaggio di istituzionalizzazione, quindi di comunità terapeutica, dove si sta buona parte della giornata insieme, si mangia insieme, si fanno tante cose insieme.

Abitare vuol dire autonomia, responsabilità, cura di sé: non è poco.

Per la maggior parte delle persone, sentirsi dire “sei pronto per andare a vivere fuori dalla comunità”, è un trauma, perché la comunità è diventata una forma di identificazione e quindi l’idea di proiettarsi a vivere in un appartamento – specie in una città grande come Roma – spaventa. C’è anche un problema di “abituarsi all’abitare”, che vuole dire gestire l’affitto, il condominio, le bollette, programmare la spesa… E naturalmente tutelare la cura di sé e dei propri spazi.

La casa e il quartiere

Ma abitare è anche la necessità di sentirsi riconosciuti nel quartiere in cui si vive, perché il fatto di affidarsi al libero mercato per trovare le case, ti porta a radicarti in una zona. Abitare dunque è non sentirsi isolati, è sentirsi a proprio agio nel quartiere, quando si va all’edicola, si entra in un negozio, eccetera. Potrei citare la testimonianza di un ragazzo che, dopo 18 anni di comunità terapeutica, è andato a vivere in un appartamento privato, in affitto:

«Il mio quartiere si chiama Africano ed è a Roma (…) Nel mio quartiere ci sono dei negozi sfiziosissimi Squin Ink e Lampo e il punto Einaudi, ma soprattutto voglio evidenziare che nel mio quartiere oramai mi conoscono tutti. Io sono Maurizio per il bar Funari, per l’edicola di Giulio e Patrizio, per Matteo (il barbiere), tabaccaio, supermercato, commessa di Feltrinelli e alcuni negozi dove comunque sanno che sono io.»

L’associazione Solaris ha deciso di accompagnare il passaggio dalla comunità all’abitazione privata affacciandosi al libero mercato, ma in particolare i familiari – l’associazione nasce da un gruppo di familiari – si sono resi conto che singolarmente non avrebbero potuto affrontare il problema, mentre insieme, e in rete con altri soggetti, avrebbero potuto raggiungere i loro obiettivi.

Il progetto prevede che due o tre persone abitino stabilmente nello stesso appartamento, e che siano supportati. Il fatto che queste persone hanno in genere delle indennità, e che ci sia stato anche un intervento del Dipartimento di Salute Mentale, hanno permesso di affrontare gli affitti e le spese. Il problema quindi non era tanto quello economico, quanto quello di trovare un padrone di casa disponibile ad ospitare una persona con disagio psichiatrico. Il titolo del mio intervento è “Abiteresti con me?” (titolo anche di un opuscolo ideato da Solaris nel 2016 a seguito del progetto Quotidianamente, finanziato da CESV-SPES Centri di Servizio per il Volontariato del Lazio),  perché non possiamo ignorare che lo stigma attorno a queste persone è grossissimo. Il problema quindi è la casa, ma è anche superare lo stigma: questo è un punto complicato, ed è il punto su cui l’associazione si è molto impegnata.

La rete

L’abitare per i pazienti psichiatrici è stato possibile perché abbiamo lavorato in rete con il II Municipio e il Dipartimento di Salute Mentale, prima dell’ASL RM A e ora ASL Roma1.

Proprio perché c’è una molteplicità di bisogni, un attore da solo non ce la può fare, non ce la può fare l’associazione da sola.

Ad esempio, abituarsi all’abitare significa imparare a prendersi delle responsabilità e per questo serve un supporto all’housing. Solaris, grazie al contributo del II Municipio di Roma, che ha finanziato un progetto dedicato al supported housing per i pazienti psichiatrici, ha attivato misure di supporto all’abitare, che si concretizzano nell’affiancare e accompagnare i pazienti nel disbrigo di incombenze quotidiane, quali il fare la spesa, organizzare gli spazi domestici, pagare bollette, eccetera.

La nostra associazione, Solaris, ma anche altre con cui lavoriamo, si occupano anche dell’integrazione sociale e del sostegno alle famiglie, perché anche per le famiglie sapere di avere un figlio, un fratello, un parente in un’abitazione autonoma può creare difficoltà, dubbi. Per questo collaboriamo con un’associazione, che si chiama Apeiron, che organizza una volta al mese degli incontri di formazione con i familiari, per ragionare insieme sui possibili problemi, confrontarsi sulle esperienze che si stanno facendo.

Quindi la chiave di volta del nostro progetto è stata la rete, perché ha permesso di leggere la complessità dei bisogni legati alle persone con disagio psichiatrico, e di provare a rispondere, di intrecciare le esigenze dello spazio abitativo privato con quelle della socializzazione e dell’integrazione sociale.

 I laboratori integranti

Per costruire integrazione e reti attorno all’abitare, organizziamo dei laboratori integrati, cioè dei laboratori che vengono proposti alle persone in appartamento, ma che sono aperti anche ad altri pazienti e in generale a tutto il quartiere. Questi laboratori negli anni si sono organizzati grazie al contributo di vari soggetti, tra cui la Regione Lazio, la Chiesa Valdese, I Centri di Servizio per il volontariato.

Facciamo ad esempio il laboratorio di musica: qui entra in gioco il secondo Municipio, che ci mette a disposizione la sala cittadina, dando così visibilità al laboratorio sul territorio. Le persone che conducono il laboratorio sono esperti e a conclusione dell’attività si organizza una festa aperta alla cittadinanza in cui si dà spazio a ciò che si è appreso.

C’è anche il laboratorio di scrittura, che diventa anche un momento in cui raccontarsi: partecipano pazienti, operatori, qualche familiare, ma anche le persone del quartiere. Facciamo laboratori di passeggiate urbane, per riscoprire i parchi con un’esperta botanica, che si occupa di architettura del verde.

L’idea insomma è quello di una certa forma di “co-housing” in cui la dimensione della condivisione è allargata al quartiere, per rispondere all’esigenza di lottare contro lo stigma.

CoAbitare: un ecosistema collaborativo

Intervento di Chiara Casotti, vice-presidente dell’associazione CoAbitare di Torino, all’incontro formativo del progetto Amplicasa che si è svolto il 16 e 17 febbraio 2018 a Roma

Abitualmente il termine co-housing viene declinato in modi molto diversi, anche all’interno della nostra associazione. Effettivamente parliamo non solo di  hardware  – la casa – ma anche software – le  relazioni –, e le relazioni cambiano, così ogni esperienza è una storia a sé.

CoAbitare è un’associazione nata nel 2007 – l’anno scorso abbiamo festeggiato i 10 anni di vita – fondata da un gruppo di persone per promuovere un modello abitativo, che fosse solidale e in cui ci si potesse aiutare tra vicini e che potesse accompagnare un modello sociale partecipativo e sostenibile, un differente modo di abitare. Come si può leggere dal nostro sito: «Non più condomini dove la gente non si conosce e appena si saluta, ma realtà abitative, in cui le persone hanno obiettivi comuni, si aiutano reciprocamente, si frequentano, organizzano occasioni d’incontro rivolte anche all’esterno, pur mantenendo l’assoluta indipendenza del proprio spazio abitativo privato».

Questo modello in Italia non c’era: era presente all’estero ed era, per esempio, molto diffuso nel Nord Europa, dove è nato quando le donne sono entrate massicciamente nel mercato del lavoro e si è quindi posto il problema di come gestire la casa e i figli. Si inizia così: con la condivisione dei servizi, attraverso il pagamento di personale.  In un secondo momento, i coabitanti decidono di mettersi insieme e, in forme autogestite, di portare avanti tali servizi negli spazi comuni.

 

L’importanza di fare rete

Il modello dell’abitare collaborativo in Italia non ha una struttura legislativa, e questo rende più difficile muoversi in questo ambito. Anche perché, oltre a non esserci un quadro legislativo, non c’è uno Stato che finanzi progetti di cohousing in affitto, con spazi individuali e spazi comuni, come invece è successo in Svezia. Gli spazi comuni, ridotti al minimo nei condomini tradizionali, sono quelli che abilitano le relazioni e gli scambi; ma non possiamo negare che questi spazi comuni sono un costo. E come lo si affronta?

Per affrontare problemi come quello accennato, è nata l’esigenza di una raccolta delle buone pratiche  presenti sul territorio italiano, dove ormai si possono contare un certo numero di esperienze realizzate. È utile guardare anche ad esperienze più longeve di altre nazioni, per vedere cosa possiamo importare e tradurre nella realtà italiana.

Possiamo dire che un movimento dal basso, in varie parti d’Italia, si è costituito nella Rete italiana Cohousing: una rete informale che funziona come contenitore, in cui si scambiano esperienze e informazioni. Siamo stati contattati in seguito da una piattaforma europea di community-led housing coordinata da urbaMonde e da ID22 (Institute for Creative Sustainability), per far parte di un movimento più ampio che si sta coordinando su basi transnazionali. Anche a livello europeo, quindi, c’è l’esigenza di confrontarsi con altre realtà,  scambiarsi informazioni specialmente relative alle leggi o agli  accordi stipulati con le Amministrazioni locali. Tutto questo perché è importante riuscire a collaborare tra Enti e rapportarsi in maniera più strutturata con le pubbliche amministrazioni , specialmente per chi, come noi, ha un modello associazionistico basato sul volontariato. Noi tra l’altro ci consideriamo anche i “fratelli” degli ecovillaggi, esperienze con le quali abbiamo alcuni aspetti in comune.

 Perché funziona

Fino a qualche anno fa le persone confondevano co-housing, social housing e comuni. Più o meno tutti, quando pensavano a forme di abitare insieme, pensavano alle comuni di tipo sessantottino. Invece il modello europeo è molto diverso, molto più funzionale e meno idealistico, e nasce con l’idea di far collaborare le persone che abitano in un contesto e che decidono di investire sulla comunità e sulle relazioni. Non è una cosa a portata di tutti: servono motivazioni e forse una certa predisposizione. Ma avendo visto molte realtà all’estero, posso dire che funziona, soprattutto per le persone fragili o sole, che in un contesto di vicinato collaborativo ritrovano forza, autostima ed anche la capacità di diventare a loro volta promotori di relazioni.

In Italia sono state fatte una serie di iniziative per promuove l’abitare collaborativo. Dal 2014 HousingLab organizza  a Milano Experiment Days, la fiera dell’abitare collaborativo durante la quale vengono presentate le esperienze collaborative relative all’abitare. Dal 2016, come Rete italiana Cohousing, ci siamo uniti ad una rete europea per promuovere un mese di manifestazioni a “porte aperte”, coordinate dai francesi di Coordin’Action, che ha goduto di una copertura stampa notevole, proprio perché avevamo l’obiettivo di farci conoscere, per far conoscere i benefici del cohousing.

La rete italiana cohousing si ritrova, circa una volta l’anno, per confrontarsi anche sugli strumenti utili per affrontare le criticità: non è sempre facile vivere in un contesto che mette le relazioni al centro. Ma condividere è davvero moltiplicare. L’anno scorso ci siamo riuniti per ragionare una proposta di legge che il C.R.E.S.E.R. (Coordinamento Regionale per l’economia solidale Emilia Romagna) voleva presentare alla Regione. Unendo punti di vista ed esperienze siamo riusciti a definire un progetto condiviso.

 Le esperienze di Torino

A Torino ci sono due modelli di co-housing. Uno è Numero Zero, a Porta Palazzo, che forse è uno dei primi in Italia. Negli anni settanta e successivi sono stati costruiti alcuni condomini con spazi comuni molto ampi, ma è stato negli anni duemila che si è vista un’ondata di maggiore consapevolezza, e un gruppo di persone ha deciso di unirsi comperando un immobile in un quartiere allora molto degradato, il centro storico. E anche l’idea di andare in un quartiere considerato pericoloso è stata una sfida. L’idea era che il co-housing doveva aprirsi al quartiere e infatti Numero Zero collabora per fare feste di quartiere, offrire i suoi locali ad associazioni di volontariato per le loro attività e così via. Dalla casa ci si apre al quartiere per rigenerare le relazioni.  Numero Zero è costituita da otto unità abitative, quindi è piccola, ma è stata un’esperienza innovativa: persone singole e nuclei familiari hanno deciso di fare qualche cosa che prima non c’era.

SoLE Cohousing invece è un’esperienza nata dalla cooperativa Frassati, una grossa realtà che a Torino è molto attiva nel sociale con vari livelli di servizi. Hanno deciso di comperare una piccola casa, per studiare un modello di accoglienza molto particolare: dei sei appartamenti, tre sono destinati a co-houser con affitti a lungo termine, che dopo un percorso di accompagnamento costituiranno un nucleo forte, per accogliere gli abitanti degli altri tre appartamenti. Uno di questi è dedicato all’housing first, e quindi a una persona che esce da un disagio abitativo grave, che così può avere un periodo-cuscinetto per la conquista della completa autonomia; e gli altri due sono invece dedicati all’housing temporaneo: padri separati, studenti, lavoratori fuori sede. È un modello piccolo, ma coraggioso, di accoglienza, che si basa sull’idea che le relazioni sono quelle che cementano, includono, e aiutano a superare i problemi.

 

Lavoriamo per educare, ma basta baracche

A Messina l’oratorio San Luigi Guanella può contare su volontari motivati e preparati. Anche se il compito è arduo.

Arriva ogni pomeriggio, alle tre, determinata e disponibile, pronta per le due ore di volontariato con i ragazzi che frequentano l’oratorio San Luigi Guanella nella zona di Fondo Fucile, a Messina. È Giada Boemi, 22 anni, secondo anno di psicologia, forti motivazioni e convinzione che quello che fa è utile.

«Cosa facciamo qui? Salviamo il salvabile», spiega.  «Fondo Fucile è una zona a rischio, che tra l’altro ha un alto tasso di criminalità. I ragazzi sono attratti da questo ambiente e spesso prendono strade che non dovrebbero prendere». Qui vengono ogni pomeriggio: Giada – con un gruppetto di volontari, il sostegno di un gruppo scout e di un’insegnante in pensione – li fa studiare, «principalmente perché a casa non lo fanno, e poi perché quelli che sono in difficoltà non possono certo pagarsi un doposcuola privato. Gli facciamo fare i compiti, ma soprattutto lavoriamo sull’acquisizione delle conoscenze di base, quelle indispensabili per il loro futuro: saper fare un’addizione o una sottrazione, per esempio, per riuscire a comperarsi anche solo un paio di scarpe. O sapersi spiegare: per loro ad esempio è difficile parlare italiano: sono abituati al dialetto, che parlano in famiglia». E poi un approccio all’uso delle nuove tecnologie: «Con la scusa di una ricerca per la scuola, abbiamo insegnato loro a usare il computer. Può sembrare strano che un ragazzino di 13, 14 anni non ne sia capace, ma a casa non ce l’hanno, non possono permetterselo».

Un giorno ho chiesto che lavoro volevano fare da grandi, e un ragazzino ha risposto: spacciare

Questi sono ragazzi che vivono nelle baracche che si ammucchiano l’una sull’altra nel quartiere:«Questa loro condizione abitativa è un vero problema», spiega. «Al di là di come sono fatte (i tetti sono di eternit, che come si sa è cancerogeno), le baracche sono molto piccole. Non c’è riservatezza tra famiglia e famiglia, ma non c’è neanche all’interno della famiglia: i figli dormono con i genitori. Anche se volessero fare i compiti, non avrebbero uno spazio, un luogo dove mettersi. I miei nonni mi raccontano che una volta era così: si viveva tutti in una sola stanza, ma oggi non è accettabile. E loro lo sanno, e si vergognano a dirlo, perché, confrontandosi con gli altri, si rendono conto di vivere in una situazione particolare».

Buona parte dei genitori non lavora, alcuni sopravvivono grazie alla piccola criminalità. «Questo è l’esempio che gli adulti danno ai ragazzi. Un giorno ho chiesto che lavoro volevano fare da grandi, e un ragazzino ha risposto: spacciare. Rideva, ma secondo me in fondo in fondo diceva sul serio».

Giada, che questa situazione la conosce bene, perché sono ormai tre o quattro anni che fa volontariato qui, non si rassegna: nessuna situazione è irrimediabile. «Molti fanno finta di non vedere questi quartieri, fanno finta che questa realtà non esista. Ma esiste, coinvolge gli adulti e ricade sui ragazzi, cioè sulle nuove generazioni, quelle da cui dipende il futuro. Il loro e il nostro. E non è bello sapere che il nostro futuro è nelle mani di ragazzi che, nel migliore dei casi, non hanno idea di che cosa fare nella vita. Io mi sento coinvolta in tutto questo, e per questo tutti i giorni sono qui. Anche se quello che facciamo è una goccia nel mare, bisogna farlo. Per me è quasi un dovere. E devo dire che è piacevole: io con loro sono cresciuta molto».

L’entusiasmo non le impedisce di vedere le difficoltà. «Hanno un livello di concentrazione più basso della norma, e un linguaggio colorito, ma anche pieno di parolacce: sono aggressivi nel parlare. È difficile instaurare con loro un rapporto civile, farsi ascoltare quando si spiega qualche cosa… Bisogna sempre trovare dei giochi, delle attività che li coinvolgano».

L’oratorio ha un campetto, che è stato costruito dove prima c’erano altre baracche. «È un punto di incontro importante», spiega Giada. «A volte noi diamo per scontate cose che non lo sono. Giocando a calcetto imparano tanto: a rispettare le regole, prima di tutto, e poi a stare insieme».

Se riesco a portarli in terza media, vuol dire che il mio lavoro è servito

Già il fatto che i ragazzi giochino qui, cioè in un ambiente sano invece che per strada, è un primo risultato positivo, ma si punta più in alto: «La speranza è che, più stanno qua, più apprezzino quello che sperimentano, che si rendano conto che c’è un altro modo di vivere che non è quello di andare in giro a danneggiare le macchine. A volte mi chiedono: “ma non ti stanchi a studiare?”. Loro lo vivono come un obbligo. Io cerco di far capire che lo studio, l’istruzione sono importanti, e che studiare può essere anche piacevole. Istruzione e cultura sono fondamentali: bisogna formare uomini che pensino con la propria testa e che non si limitino ad imitare gli amici».

È una scommessa, ma qualche frutto già si vede. «Alcuni miglioramenti li abbiamo visti», dice Giada. «Per esempio, facciamo questo doposcuola da due o tre anni, e già vediamo che alcuni vengono promossi – mentre prima era normale la bocciatura. Già questa è una conquista: se riesco a portarli in terza media, vuol dire che il mio lavoro è servito. Noi seminiamo, poi sarà quel che sarà, ma credo che il doposcuola che hanno fatto con noi se lo ricorderanno sempre. Quindi sì, io spero in qualche cosa di meglio, spero che possiamo migliorare la situazione».

Per affrontare il problema alla radice, però, bisognerebbe cancellare le baracche e il modo di vivere che si portano dietro. «Bisogna dare case che siano case: quando piove, d’inverno, loro si trovano l’acqua dentro. E poi bisogna creare qualche struttura, qualche luogo di incontro. Come questo campetto, che è stato costruito dove c’erano le baracche abbattute anni fa…».

Paola Springhetti

“Servono i segni”: a colloquio con suor Emanuela

Suor Emanuela Simoes  guida con fermezza il Centro d’ascolto degli Scalabriniani a Reggio Calabria: la realtà è entrata a far parte della rete territoriale dell’accoglienza, nell’ambito del progetto Ampliacasa.

Suor Manuela«Noi non possiamo risolvere tutti i problemi». Suor Emanuela Simoes, che con fermezza guida il Centro d’ascolto degli Scalabriniani, che ha sede nella parrocchia di Sant’Agostino a Reggio Calabria, parla chiaro. Ed è per questo che il Centro ha deciso di entrare nella rete territoriale per l’accoglienza che Acisjf Fata Morgana sta costruendo all’interno del progetto Ampliacasa.

«Immigrati, richiedenti asilo, rifugiati… noi accogliamo tutti.  Questo è un Centro che la diocesi ha istituito più di vent’anni fa per l’accoglienza e l’accompagnamento dei migranti. Allora c’era una comunità di filippini: è stata la prima comunità straniera ad insediarsi qui. Poi sono arrivati africani, persone dell’Est e così via…».

Si tratta soprattutto di un luogo di ascolto, che offre in più alcuni servizi di base, tra cui la distribuzione di vestiti e generi alimentari. «A seconda del bisogno che esprimono, indirizziamo le persone verso le realtà da cui possono avere risposte e le aiutiamo a risolvere alcuni problemi. Vorremmo fare di più, ma non abbiamo locali idonei», spiega Suor Manuela. La parrocchia, infatti, ha bisogno dei locali per le normali attività pastorali, perciò le attività di accoglienza sono compresse nelle ore mattutine, per lasciare liberi i locali nel pomeriggio. Per questo Suor Manuela sta cercando qualche stabile confiscato alla mafia, ma si è scontrata con il fatto che «è molto difficile ottenerli».

Anche se si vorrebbe fare di più, le attività sono comunque tante e coinvolgono grandi numeri, grazie a 20-25 volontari, all’aiuto di un gruppo scout, a quello del gruppo che riunisce gli anziani della parrocchia, alla collaborazione del consultorio familiare e soprattutto con la Caritas diocesana.

«Noi riceviamo tutti – sottolinea Suor Manuela – anche la popolazione Rom, che è numerosa e a volte costituisce un problema per i centri di ascolto. Sono almeno duecento le famiglie che seguiamo regolarmente, e abbiamo circa 2000 “passaggi” all’anno (cioè persone che vengono qui e poi sono indirizzate ad altre strutture oppure partono per il Nord)».

Vero fiore all’occhiello del Centro è il servizio che segue le pratiche burocratiche: «È uno dei servizi più richiesti ed efficienti. Molti immigrati sono analfabeti, e non riescono neanche a leggere le sentenze del tribunale. E comunque per loro seguire una pratica per il permesso di soggiorno o più semplicemente per la residenza è molto difficile».

Il Centro propone anche corsi di italiano e supporto nella ricerca di un lavoro.  «Ce lo chiedono soprattutto le donne dell’Est – georgiane, ucraine, romene – e anche le tunisine», racconta, «meno le marocchine: vengono dalla parte più povera del Pase, dove il modello familiare prevalente prevede che la donna si occupi della prole, della casa, del marito. Abbiamo avuto anche il caso di una giovane donna, sposata ad un uomo più vecchio, che non usciva mai».

E poi c’è il problema di chi esce dal circuito ufficiale dell’accoglienza: «Ultimamente ci sono arrivate molte coppie giovani della Nigeria, o da altri Paesi africani. Sono persone approdate con gli sbarchi, a volte hanno bambini piccoli e sono uscite dal circuito degli SPRAR e dei centri di accoglienza, perché volevano stare insieme – nei centri di accoglienza uomini e donne sono divisi –. Perciò sono uscite per potersi incontrare, ma se esci senza permesso non puoi più rientrare e sei fuori da tutti i circuiti di aiuto e protezione».

In questi casi c’è bisogno anche di soluzioni abitative, difficili da trovare, proprio perché si tratta di coppie, nuclei familiari che non vogliono dividersi, mentre le comunità, i dormitori, le strutture sul territorio sono o per uomini o per donne.

Dunque, servono locali per i servizi (distribuzione vestiti), per i corsi di italiano, e anche per gli eventi che ogni tanto si fanno per aggregare. E servono case per gli immigrati, ed è questo il problema più grande.

Il motivo per cui il Centro ha deciso di entrare nel progetto Ampliacasa, partecipando alla costruzione di una rete territoriale è duplice: «Ci interessa partecipare all’avviarsi di una nuova progettualità. E soprattutto ci interessa impostare un serio lavoro di rete, che oggi non esiste. Bisogna mettere insieme competenze e risorse. Bisogna creare sinergie. Ci vuole scambio: noi siamo un’eccellenza nel campo delle pratiche burocratiche? Qualcuno lo è in altri campi… mettiamoci insieme!».

Solo a questa condizione – che si faccia rete e che si ragioni in termini di progettualità – si potranno trovare risposte nuove ai bisogni delle persone. Una risposta potrebbe essere il cohousing? Forse: «Potrebbe diventarlo, se ci fosse un cambio di mentalità. Ci vorrebbero buone pratiche su cui ragionare: come in tutti i campi, ci vogliono i segni».

Paola Springhetti

 

 

Messina: nuova rete dell’accoglienza

Nuova tappa nel cammino del progetto Ampliacasa: chiamate a raccolta tutte le realtà del territorio impegnate in servizi di accoglienza.

Venti volontari e diverse le realtà coinvolte per pensare ad una nuova rete dell’accoglienza per la città di Messina. Si è svolto lo scorso 9 aprile un incontro presso i locali della Casa di accoglienza per donne con bambini del C.I.R.S. Messina (Comitato Italiano Reinserimento Sociale). L’evento è stato promosso nell’ambito del progetto Ampliacasa, l’Acisjf per il cohousing – risposta innovativa delle reti di volontariato per l’accoglienza, sostenuto da Fondazione Con il Sud.

«Le associazioni presenti si occupano a vario titolo sul territorio di servizi d’accoglienza – spiega Lidia Beninati, presidente del gruppo Acisjf Messina Terra Solidale – in particolare vi erano il C.I.R.S. Onlus, l’Oratorio San Luigi Guanella, l’A.C.C.I.R. (Associazione Cattolica Culturale Italiana Radioperatori), la F.I.D.A.P.A. (Federazione Italiana Donne Arti Professioni e Affari), il Centro Aiuto alla Vita, Non solo 15 Onlus».

Al centro della condivisione un obiettivo primario: costruire una rete territoriale dell’accoglienza, attraverso la testimonianza delle esperienze peculiari che ciascuna associazione vive in prima linea.

«Ogni partecipante ha raccontato il proprio vissuto in merito al servizio svolto nell’associazione di appartenenza. È emerso un ampio panorama di esperienze rivolte a persone con disabilità, donne vittime di violenza, adolescenti con disagio sociale, ragazze madri, famiglie con bambini ospedalizzati, immigrati» commenta Beninati.

Tante realtà diverse ed eterogeneo il servizio di accoglienza offerto ma con un comune denominatore: «È emerso che accogliere è soprattutto accettare l’altro senza pregiudizio, dare ascolto alla sua richiesta di aiuto e sostenerlo nel cercare insieme le possibili soluzioni per affrontare e superare il disagio vissuto» conclude la presidente di Acisjf Messina Terra Solidale.

Da Messina è l’alba di una storia, quella di una rete pronta a rispondere alle nuove sfide dell’accoglienza.

Mariarosaria Petti

 

 

Inaugurata la Casa della Giovane ad Arbus

Per ora offre servizi, ma l’obiettivo è farla diventare un’esperienza di cohousing per donne in condizione di fragilità.

Un taglio del nastro, tra emozione ed entusiasmo, segna ad Arbus l’inizio di un nuovo cammino dell’Acisjf (Associazione Cattolica Internazionale al Servizio della Giovane) assieme alla comunità. È arrivato ad un momento cruciale, infatti, il progetto Ampliacasa: un percorso che ha messo in rete associazioni di volontariato e che ha come obiettivo finale quello di aprire una struttura per il cohousing.

IMG_2164Obiettivo, questo, raggiungibile grazie alla generosità della famiglia Statzu, che ha messo a disposizione un edificio storico in piazza della Cavalleria ad Arbus. Intanto, il 23 settembre scorso, alla presenza di autorità religiose e civili e dei referenti nazionali, è stata inaugurata la “Casa della giovane Ettore Desogus”, un luogo di ascolto, che nel giro di un mese offrirà vari servizi, come uno sportello d’ascolto e servizi educativi di cui si occuperà la cooperativa Sinergie. «Da venti anni», spiega la presidente Roberta Schirru, «portiamo avanti progetti con i Comuni per offrire un sopporto alla collettività. Ci confronteremo con il Comune di Arbus per capire quali esigenze sin da ora possiamo curare».

La casa diventerà poi un luogo di coabitazione solidale per donne in situazioni di disagio, lontane dalla famiglia o dal proprio ambiente: ciò che si vuole sperimentare è una soluzione nuova di accoglienza, in cui le persone fragili possano trovare, oltre ad un tetto, anche un affiancamento in un’ottica di auto mutuo aiuto, ovvero di un aiuto reciproco, evitando i rischi dell’assistenzialismo e puntando invece sul riscatto sociale, su percorsi di autonomia che permettano di riappropriarsi della propria vita.

Di tutto questo si è parlato nel convegno organizzato appunto il 23 settembre in occasione dell’inaugurazione della Casa, avvenuta nel teatro Murgia di Guspini, alla presenza del Vescovo padre Roberto Carboni, della famiglia Statzu, della presidente nazionale Acisjf Patrizia Pastore, della presidente emerita Emma Cavallaro e del presidente di Sardegna Solidale Giampiero Farru.

Il vescovo, padre Carboni, ha incoraggiato tutti dicendo: «L’ascolto a cui voi vi dedicherete è molto importante è un’attitudine dell’anima ed è già di per sé accoglienza. Accoglienza della persona, dei suoi bisogni, delle sue esperienze, delle sue sofferenze… Trovare il tempo per ascoltare è importantissimo, ci sono persone che solo ad essere ascoltate cominciano a stare meglio. C’è tanta solitudine e c’è tanta poca attenzione agli altri. Apparentemente c’è sempre qualcosa di più importante da fare e per cui impegnarsi. Il tempo dell’ascolto non è tempo perso, è tempo donato, ed è tempo che affina il vostro spirito e lo mette in atteggiamento di accoglienza. Sappiate che in me troverete sempre accoglienza ed ascolto».

Parole significative anche quelle del direttore della Caritas don Angelo Pittau: «C’è bisogno del sostegno della comunità civile ed ecclesiale.  I progetti si realizzano con l’aiuto di tutti. La situazione delle famiglie e delle donne è allarmante. Chi fa parte di associazioni di volontariato tocca con mano ogni giorno lo stato di emergenza. Salutiamo la presenza dell’Acisjf nel territorio come un segno di speranza e stimolo a sensibilizzare le nostre comunità».

Gli fa eco Emma Cavallaro: «Il volontariato è un dono che ci permette di stare dalla parte di chi ha bisogno. Tutto quello che si riceve è più di quello che si dona». Poi l’invito unanime ad un unirsi al gruppo dei volontari: «Se ognuno dà anche poco, assieme a quanto fanno gli altri, diventa tanto. Ho conosciuto tante persone impegnate nell’Acisjf e insieme non abbiamo fatto assistenzialismo, ma offerto risposte ad un bisogno concreto».

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A presentare la realtà ultra centenaria dell’Acisjf e la nuova sfida del progetto Ampliacasa, la presidente nazionale Patrizia Pastore: «Come il Vangelo necessita di essere costantemente incarnato per rispondere ai segni dei tempi, così come laici impegnati nel volontariato abbiamo bisogno di rivestire di un senso sempre nuovo la parola accoglienza. E la risposta che Acisjf prova a dare nel 2017 si chiama cohousing. Grazie ad Ampliacasa, un nuovo progetto sostenuto da Fondazione con il Sud, l’Acisjf con le tre partner meridionali di Cagliari, Messina e Reggio Calabria ha l’occasione di studiare nuove forme di coabitazione per persone in situazioni di marginalità e fragilità, proponendo un nuovo modello».

Paola Springhetti

 

 

 

Messina: costruire rete per il cohousing

Il 9 ottobre un incontro con le associazioni del territorio per cercare insieme risposte al problema dell’abitare.

Prosegue il percorso di Acisif Messina – Terra Solidale all’interno del progetto Ampliacasa, di cui l’associazione è partner (ne abbiamo parlato qui). Acisjf ha invitato le altre associazioni del territorio ad un incontro che si terrà il 9 ottobre 2017, alle ore 17.00, presso la sede del C.I.R.S. Onlus, salita mons. Bruno (accanto PalaCultura), a Messina.

L’obiettivo è quello di avviare un percorso tra associazioni, che si occupano a vario titolo di accoglienza, in modo da creare reti permanenti per l’abitare sociale a livello locale. Una rete, insomma, che condivida alcuni obiettivi e che permetta di valorizzare al massimo le potenzialità e le risorse del territorio, per trovare risposte ad un problema pressante, qual è quello dell’emergenza abitativa per le persone in condizione di fragilità.

 

In Sardegna un nuovo centro per sperimentare il cohousing

Ad Arbus un nuovo centro di ascolto e una struttura in cui donne sole e persone fragili potranno sperimentare percorsi di autonomia grazie al cohousing.

Sul nostro territorio il problema della casa è molto sentito e coinvolge particolarmente le persone fragili, che hanno bisogno non solo di un luogo dove abitare, ma anche di percorsi di accompagnamento verso l’autonomia. Il cohounsing è una risposta a questa duplice esigenza.

Ad Arbus sta nascendo un nuovo centro di ascolto e una esperienza innovativa di cohousing, rivolta in particolare alle giovani donne che per vari motivi si trovano lontane dalla propria famiglia e dal proprio ambiente.

Tutto questo grazie ad Acisjf (Associazione Cattolica Internazionale al Servizio della Giovane), associazione che lavora per offrire opportunità di realizzazione, senza distinzione di nazionalità, religione e appartenenza sociale, alle giovani donne.

Questo progetto di Acisjf Cagliari si colloca all’interno di Ampliacasa – L’Acisjf per il cohousing. Risposta innovativa delle reti di volontariato per l’accoglienza, un progetto finanziato dalla Fondazione Con il Sud, che ha l’obiettivo di sperimentare e avviare forme innovative di accoglienza, in cui le persone fragili possano trovare, oltre a un tetto, un percorso di accompagnamento verso l’autonomia, in un’ottica di mutuo aiuto e di compartecipazione.

L’associazione, che nella nostra regione è nata nel 2013, è parte di Acisjf Nazionale, che da più di cent’anni è presente su tutto il territorio nazionale con 15 case di accoglienza e comunità per minori, per un totale di circa 600 posti letto. Può quindi contare su una rete di esperienze e di competenze con cui confrontarsi.

Il progetto e le conseguenti iniziative saranno presentate in un incontro che si terrà sabato 23 settembre, alle ore 17.00, presso il Cineteatro Murgia Via Pio Piras, a Guspini.

Al convegno interverrà il vescovo, padre Roberto Carboni, la presidente nazionale Patrizia Pastore e la presidente emerita Emma Cavallaro. Sarà un’occasione per conoscere l’associazione e, per chi lo vorrà, per aderire al progetto.

 

Acisjf Messina: per potenziare la capacità di accoglienza occorre fare rete

Il lavoro dell’associazione all’interno del progetto Ampliacasa, in una realtà dove la casa è un’emergenza.

L’Acisjf a Messina è una realtà giovane: l’associazione è nata infatti nel 2015, grazie al progetto Ampliarete, che aveva l’obiettivo di far crescere il volontariato nelle regioni meridionali. Ora il nuovo progetto, Ampliacasa, finanziato come il precedente da Fondazione con il Sud, aprirà una fase di crescita e di nuova progettualità.

«Siamo una piccola associazione di volontari con esperienze di impegno in diverse realtà, ma abbiamo deciso di metterci assieme per portare anche qui in Sicilia la mission di Acisjf», racconta la presidente Lidia Beninati. «In un primo momento, quindi, ci siamo dedicati a conoscere meglio la storia e la missione di Acisf, poi abbiamo organizzato una serie di incontri con altre associazioni per conoscerle e farci conoscere e alcuni eventi di promozione del volontariato e dell’agire sociale».

Ora Acisjf Terra Solidale (insieme ad Acisjf Cagliari e Acisjf Fata Morgana di Reggio Calabria) è uno dei tre partner al centro del progetto Amplicasa, che ha l’obiettivo di sperimentare e avviare forme innovative di accoglienza delle persone fragili, in particolare attraverso il cohousing. «A Messina c’è una grande emergenza abitativa», spiega Beninati. «Ci sono zone con strutture fatiscenti, che forse sarebbe meglio definire baracche. Alcune sono nate dopo il terremoto del 1908, e ancora esistono e sono abitate, a volte anche sovraffollate». Si tratta soprattutto di italiani e in misura molto minore di immigrati, ormai radicati, con seconde generazioni nate qui.

«Noi puntiamo a sensibilizzare le coscienze e anche a stimolare la partecipazione attiva attorno a questo problema», continua Beninati. «A Messina c’è una realtà di associazionismo molto ricca, e ci sono anche diverse esperienze di cohousing. Ma è una realtà frammentata: ogni associazione e ogni cooperativa ha una propria missione e un propria utenza. È importante mettersi in rete, anche per capire dove sono i “buchi”, gli spazi vuoti: è lì che dobbiamo agire. Per questo i nostri primi obiettivi sono quelli di formarci, da una parte, e di cominciare a costruire una rete, dall’altra: sono i presupposti per potere, in futuro, entrare veramente in campo. Il nostro sogno è di trovare una struttura nella quale realizzare un’esperienza innovativa di cohousing».

Acisjf Messina sta quindi seguendo gli step previsti dal progetto. A fine giugno c’è stata una prima presentazione di Ampliacasa con alcune associazioni, mentre a fine settembre si terrà un incontro pubblico più allargato, coinvolgendo tutti coloro che sul territorio si occupano di accoglienza.

E intanto si lavora sulla rete, con pazienza. «In teoria tutti ne condividono la necessità e sono disponibili, ma quando bisogna passare ad atti concreti, ci si scontra con la mancanza di tempo, con la differenza delle mission, con le priorità della propria associazione. Non è cattiva volontà: sono difficoltà oggettive. La mia esperienza però è che, se si creano occasioni vere, questi problemi si superano, perché tutti sappiamo che, di fronte a problemi comuni, è meglio unire le forze».

Il fatto di stare dentro un progetto come Ampliaca è uno stimolo, «e ci auguriamo che anche con l’aiuto di Acisjf Nazionale questa sia l’occasione giusta per concretizzare qualche cosa di significativo anche a Messina», conclude la presidente.

Paola Sprighetti