Ultima tappa di Ampliacasa a Arborea e Arbus
I volontari delle reti di accoglienza del Sud s’incontrano ad Arborea e ad Arbus per l’ultimo appuntamento del progetto “Ampliacasa: l’Acisjf per il co-housing”.
Ultima tappa per “Ampliacasa: l’Acisjf per il co-housing”, il progetto ideato dalla Federazione Nazionale Acisjf e sostenuto da Fondazione Con il Sud. Dopo due anni di lavoro, i volontari delle reti di accoglienza del Sud Italia sono pronti a scrivere il capitolo finale di un nuovo modello di coabitazione che possa rispondere alle esigenze abitative emergenti e alle fragilità del mondo femminile.
L’appuntamento è dal 27 al 29 marzo p.v., presso la Casa di ferie “San Pancrazio” a Marina di Arborea e alla Casa della Giovane “Dott. Ettore Desogus” ad Arbus, grazie all’accoglienza di Acisjf Cagliari. L’incontro di co-progettazione è finalizzato a individuare ed elaborare gli strumenti da utilizzare per supportare il co-housing e facilitare i percorsi e la transizione all’autonomia.
Sarà il “World Cafè” lo strumento che i volontari utilizzeranno per il confronto e la condivisione: ricreando l’atmosfera di un caffè, i partecipanti saranno chiamati a sedere a ciascuno dei tavoli tematici di discussione preparati, ruotando al successivo allo scadere del tempo a disposizione.
Il World Cafè valorizza le conversazioni informali, mobilitando in modo creativo pensieri e risorse, producendo apprendimento per generare cambiamento. Il processo si concluderà con una restituzione in plenaria.
I volontari potranno riflettere sulle fasi di avvio, gestione e sostenibilità di un progetto di co-housing, prendendo in esame temi come le risorse economiche per la start-up, la definizione del sistema di valori e regole, l’individuazione dei componenti della rete di accoglienza promotrice di un’iniziativa di co-housing.
Inoltre, i partecipanti discuteranno del patto educativo da stringere con le ospiti e dei possibili percorsi di responsabilizzazione che conducano all’autonomia. Infine, ai tavoli sarà presentato anche il tema della sostenibilità economica, del monitoraggio dei percorsi di autonomia e della necessità di attivare un piano di comunicazione legato al progetto di coabitazione.
Venerdì 29 marzo, i volontari potranno visitare la Casa della Giovane “Dott. Ettore Desogus” ad Arbus, la struttura in piazza Cavalleria donata all’Acisjf dalla famiglia Statzu e inaugurata il 23 marzo scorso. Alle 10.30 è previsto un incontro pubblico con le istituzioni locali, al quale parteciperà anche Simona Saladini, neo eletta presidente della Federazione Nazionale Acisjf.
Emergenza casa, serve una risposta
Il co-housing nasce a Copenhagen come forma di residenzialità, con spazi comuni destinati all’utilizzo collettivo. Ma qual è lo scenario italiano in tema di abitare?
di Mariarosaria Petti
Un milione e 708 mila famiglie italiane si trova attualmente senza una casa. È la stima di Federcasa e Nomisma, resa nota a inizio 2018. Una ferita che continua a sanguinare, diretta conseguenza di una crisi generale: meno dieci punti di Pil e 2 milioni di posti di lavoro persi significano più povertà e debiti e meno consumi. Il prezzo degli affitti è aumentato rispetto all’inizio del millennio, quando la metà della popolazione spendeva per i canoni di locazione non più del 20% del reddito annuo, contro il 75% dell’attuale. Le lunghe liste d’attese per un alloggio popolare e le occupazioni abusive rischiano di inasprire sempre di più una situazione già drammatica, intorno alla quale si polarizzano le disuguaglianze sociali: i più abbienti con seconde e terze case. I “nuovi” poveri senza un tetto sulla testa. L’emergenza casa si colloca in questo scenario.
Sono stati sperimentati diversi modelli di co-housing, fino al felice incontro tra la proposta residenziale innovativa e il mondo delle fragilità sociali.
Una casa per tutti. Il diritto all’abitazione è sancito dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, un baluardo per la dignità umana. La casa è ciò che dà forma all’identità della persona, il luogo sicuro dove scrivere la propria biografia. Una risposta all’emergenza abitativa potrebbe essere quella del co-housing, termine con cui si indica un insediamento abitativo composto da alloggi privati, corredato da ampi spazi comuni destinati all’uso collettivo e alla condivisione tra i co-residenti. Il primo esperimento moderno di co-housing può essere considerato il palazzo realizzato da Otto Fick nel 1903 a Copenhagen e chiamato Fick’s Collective. L’edificio aveva una sola cucina centrale alla quale potevano accedere tutti gli appartamenti. Da allora sono stati sperimentati diversi modelli di co-housing, fino al felice incontro tra la proposta residenziale innovativa e il mondo delle fragilità sociali. Si può definire co-housing sociale puro la libera scelta come stile di vita di quei residenti che abitano in appartamento da soli o con altre persone (massimo 2-3) e condividono spazi comuni. Si tratta invece di un co-housing mediato quando i residenti vivono una situazione di fragilità e necessitano di un supporto sociale. Il percorso, in questi casi, è piuttosto lungo (1 anno circa) e solo dopo l’acquisizione di autonomia, i co-residenti possono andare a vivere da soli. L’housing sociale è la residenzialità in appartamenti messi a disposizione con un supporto assistenziale leggero e per un tempo medio-lungo, durante il quale le persone acquisiscono competenze (incubatore) da riproporre in futuro.
Pensare in grande e agire in piccolo
Il 5 e 6 ottobre i volontari delle reti di accoglienza del Sud hanno fatto il punto sul percorso compiuto in un anno e mezzo di lavoro con il progetto Ampliacasa, delineando in modo partecipato un modello di co-housing.
di Paola Springhetti
È stato un momento costruttivo, di quelli in cui si sente che ci si sta avvicinando all’obiettivo di un percorso e che il risultato raggiunto provocherà riflessione e cambiamento. L’Incontro nazionale per la costruzione partecipata di modelli di co-housing si è svolto a Roma il 5 e 6 ottobre ed è stato una tappa importante del progetto Ampliacasa. Per un’associazione storica come Acisjf – che in Italia è nata nel 1902 – coniugare identità, esperienza e sapere sedimentato e innovazione non è facile. Ciò nonostante, negli anni l’associazione è sempre stata capace di rinnovarsi, adattando le forme della propria accoglienza ai bisogni che cambiavano, ogni volta con la fatica di inventare e sperimentare modelli, formare persone, costruire alleanze e reti, pur mantenendo fermi alcuni punti fissi: l’accompagnamento alla conquista dell’autonomia e il rifiuto dell’assistenzialismo, per esempio, e il rispetto e l’empowerment della persona.
In quest’ottica si colloca anche il progetto Ampliacasa: un percorso finanziato dalla Fondazione con il Sud per arrivare a definire un modello di co-housing che possa rispondere alle nuove esigenze delle donne – sole o con figli, italiane o straniere – che si trovano in difficoltà. Dunque, non perché il co-housing in un certo senso va di moda, ma perché può essere uno strumento efficace per raggiungere l’autonomia.
Le due giornate di ottobre sono state dedicate a fare il punto sul percorso compiuto in questo anno e mezzo di lavoro e a cominciare a delineare in modo partecipato il modello di co-housing: i partecipanti delle diverse regioni italiane si sono confrontati per delineare non un modello astratto, ma quello che da una parte sembra innestarsi meglio nella storia e nell’identità dell’associazione e dall’altra sembra più adeguato per rispondere ai bisogni specifici dei diversi territori. Per questo era importante il metodo partecipativo: se un modello deve essere costruito, è importante che concorrano a delinearlo anche le persone che ogni giorno lavorano sui territori e accompagnano le persone in difficoltà.
Durante le precedenti tappe del progetto erano state individuate quattro diverse tipologie di abitare che potrebbero essere raccolte sotto l’etichetta di co-housing.
- Co-housing sociale puro: i residenti abitano in un appartamento, con altre due o tre persone, e hanno scelto di partecipare a quella esperienza sulla base di una motivazione forte.
- Housing sociale: le persone convivono in accoglienza per un tempo lungo, in un alloggio autonomo, acquisiscono competenze (si tratta in questo senso di un incubatore) e poi vanno a vivere in un altro alloggio, in modo completamente autonomo.
- Housing first: le persone, con problemi di salute mentale o in situazione di disagio abitativo cronico, sono direttamente inserite in appartamenti, nella convinzione che questo crei le condizioni per intraprendere percorsi di benessere, integrazione sociale, autonomia (questa metodologia è stata sperimentata soprattutto con i senza fissa dimora).
- Co-housing (sociale) mediato. È pensato per residenti in situazione di fragilità, che necessitano di un supporto sociale. È previsto un periodo di convivenza in una struttura di accoglienza collettiva e solo dopo si sceglierà di andare a vivere autonomamente o con altri.
Ognuno di questi modelli ha caratteristiche comuni agli altri, le cosiddette invarianti (ad esempio, il fatto che siano disponibili unità abitative disponibili, la motivazione e la scelta personale degli abitanti, la presenza di spazi e servizi ad uso comune) ed altre che cambiano o che si adeguano ai diversi contesti. Tenendo conto della realtà associativa, i partecipanti all’incontro di Roma hanno individuato nel co-housing sociale mediato il modello che sembra rispondere meglio ai bisogni delle persone che Acisjf segue e alla sua mission.
È un modello impegnativo, che richiede per l’avvio, la gestione e la sostenibilità, una serie di attenzioni, azioni e impegni: la capacità di fare rete e di costruire collaborazioni attorno all’esperienza; un’attenta analisi dei bisogni; la selezione e presa in carico degli ospiti; la formazione e l’accompagnamento iniziale di operatori e volontari; oltre, ovviamente, a risorse economiche adeguate e così via. Con, in più, un’accortezza: nell’avviare un’esperienza di co-housing meglio pensare in grande ma agire in piccolo, cominciando dall’accoglienza di un piccolo numero di persone, fino a quando il progetto non va a regime e può quindi ampliarsi.
Ampliacasa inaugura “AmpliaContest. Immagini che raccontano casa”
Al via “AmpliaContest. Immagini che raccontano casa”. Emergenza abitativa, povertà emergenti, desiderio di autonomia e necessità di condivisione: tutto questo in uno scatto.
Ampliacasa inaugura “AmpliaContest. Immagini che raccontano casa”: una call per gli utenti dei social per raccontare in uno scatto la “casa”, il significato dell’abitare, della condivisione e le difficoltà legate all’emergenza abitativa, nell’ambito del progetto promosso da Acisjf e sostenuto da Fondazione Con il Sud.
L’obiettivo dell’iniziativa è quello di creare un album dove ciascuno possa offrire alla rete un pezzo della propria visione dell’abitare.
Partecipare è semplice! Cosa non deve mancare in casa? Che cosa è per noi casa? Dove ci sentiamo a casa? Immortaliamo il momento che possa racchiudere la risposta e inviamo il nostro scatto alla pagina Facebook “Ampliacasa”, corredando l’immagine con l’hashtag #ampliacontest.
Un confronto tra esperienze, un incontro tra persone
I volontari Acisjf vanno a incontrare esperienze importanti di co-housing a Torino e a Milano
Prosegue l’impegno di Acisjf di realizzare, attraverso il progetto Ampliacasa, “reti permanenti per l’abitare sociale”. Nel febbraio scorso si sono svolte due giornate di formazione a Roma, per aiutare i volontari della rete a riflettere sull’idea – anzi, sulle idee – di co-housing e su come i diversi modelli in cui vengono declinate possano essere utili per rispondere alle differenti esigenze abitative e di autonomia di persone in condizione di fragilità. Ora la formazione continua, spostandosi sul piano del confronto diretto con alcune esperienze che possono trasferire saperi “vissuti”.
Per questo, il 18 e il 19 maggio un gruppo di volontari di diverse realtà locali di Acisjf, si recherà prima a Torino e poi a Milano.
Nel capoluogo Piemontese incontrerà “A casa di zia Jessy”, un’esperienza di condominio solidale nata nel 2008 per il co-housing di anziani e donne sole con figli o per giovani in uscita da percorsi di riabilitazione sociale. Sarà anche un’occasione per confrontarsi con altre esperienze, come “Coabitazione giovanile solidale”, che vede un gruppo di giovani alloggiare in un condominio di edilizia residenziale pubblica e, a fronte di uno sconto sull’affitto, offrire ogni settimana una decina di ore di volontariato a beneficio della comunità. O come “Casa delle opportunità”, che vede la coabitazione di tre giovani stranieri: due provenienti dal circuito penale e uno con background diverso, che funge da tutor all’interno della casa.
A Milano, il giorno dopo, il gruppo dei volontari di Acisjf visiterà l’Opera San Francesco, che ha attivato il cohousing per donne ed uomini senza dimora tra i 25 e i 45 anni, anche coppie, e “Progetto Futuro San Marco 49”, che ha offerto una soluzione abitativa a 18 senza fissa dimora, secondo il metodo dell’housing first lanciato dalla Fiospd (Federazione Italiana Organismi per le Persone Senza Dimora). Un’equipe di professionisti esperti ha attivato per ogni ospite un progetto individuale per accompagnarlo verso l’autonomia.
Un altro momento significativo è l’apericena solidale del 18, che si svolgerà nel Centro San Francesco a Muggiò e che è organizzata dal “Gruppo di Acquisto Familiare – La famiglia porta valori in rete” (AFI Monza Brianza), con l’obiettivo di far incontrare due progetti diversi: il progetto Ampliacasa e il gruppo di Acquisto Familiare.
L’abitare condiviso aiuta a raggiungere la meta
Cagliari. Nella rete di Ampliacasa l’esperienza di Donne al Traguardo.
«Il traguardo è l’obiettivo che tutte le persone devono avere e che devi avere fisso davanti a te, per mantenere la rotta. Forse non lo raggiungerai mai, ma bisogna avercelo: questa è la differenza tra gli accattoni e i viandanti». Silvana Migoni è la presidente dell’associazione Donne al traguardo, nata nel 2001 a Cagliari per valorizzare la presenza femminile in tutti gli ambiti della società e per attivare forme di solidarietà nei confronti delle donne in difficoltà. All’inizio il circolo delle Donne al Traguardo era un centro di ascolto e un luogo in cui si organizzavano laboratori amatoriali aperti a tutti, ma subito venne organizzata una raccolta fondi con l’obiettivo di aprire una casa di accoglienza per donne in emergenza. Oggi Donne al Traguardo gestisce un centro antiviolenza e cinque strutture di accoglienza per donne in difficoltà, compresa una casa rifugio per quelle che hanno subito violenza. Dal primo gennaio il Comune di Cagliari ha stipulato una convenzione per un progetto per gli uomini senza fissa dimora e l’associazione punta ad aprire anche un dormitorio, grazie a un finanziamento della Fondazione Banco di Sardegna.
Abbiamo incontrato Silvana Migoni durante le giornate formative del progetto Ampliacasa, che si sono svolte a Roma il 16 il 17 febbraio 2018. Donne al Traguardo è infatti interessata al tema del co-housing anche perché l’abitare condiviso è uno degli sbocchi che l’associazione ha individuato per permettere alle donne di raggiungere una piena autonomia.
La premessa è che l’associazione fa attività a 360°: prima accoglienza di donne in difficoltà, sostegno all’indigenza attraverso la raccolta e le redistribuzione di vestiti e beni di prima necessità, aggregazione sociale attraverso i laboratori e molte altre attività, accompagnamento al lavoro, sostegno psicologico attraverso i gruppi di auto mutuo aiuto. Insomma, cerca di articolare risposte diverse per bisogni diversi.
«Abbiamo cominciato un’esperienza di abitare condiviso per le donne, che dall’assistenza potevano passare all’autonomia. Mentre l’accoglienza nelle strutture è totalmente a nostro carico e ha un tempo limite (quattro mesi, che di solito è sufficiente per trovare soluzioni, anche se in alcuni casi – per esempio donne con le pene alternative al carcere o madri sole con neonati, i termini si possono allungare), qui le donne devono contribuire alle spese, e possono stare per un tempo illimitato».
Il problema è evitare che la condizione di “assistite” si cronicizzi: l’accoglienza fin dall’inizio ha l’obiettivo di riportare le persone all’autonomia. Per questo, «laddove ci sono fragilità di tipo economico, proponiamo di andare in appartamenti: li affitta l’associazione, che si intesta anche le utenze, sia perché queste persone non potrebbero avere un contratto d’affitto, in quanto non hanno una busta paga o un reddito, sia per stemperare possibili motivi di conflitto. Però loro devono contribuire alle spese. È quindi un abitare condiviso parzialmente sostenuto. L’abitare condiviso comunque consente di prendere la residenza».
Attualmente sono una dozzina le donne che fanno l’esperienza dell’abitare condiviso e in genere sono tre in un appartamento: «è un numero perfetto», spiega Migone, «perché due sono poche – se si accende un conflitto è difficile risolverlo – mentre in tre la dinamica è più articolata».
La possibilità che scoppino conflitti c’è, ma si cerca di prevenirla con un’attenta fase di ascolto e valutazione, prima che inizi la convivenza. «Molto dipende dalla nostra capacità, di capire se le diverse persone saranno in grado di convivere. È chiaro infatti, che si tratta di donne che vengono da storie di disagio più o meno intenso e tra l’altro non sempre, se c’è una patologia psichiatrica, emerge subito. Quindi molto dipende dal periodo di osservazione e dalle conclusioni che abbiamo tirato. Dopo, di solito, la convivenza funziona bene. Certo, abbiamo avuto anche persone molto particolari, come una donna che che aveva subito violenza e che aveva incubi, era sonnambula, gridava… All’inizio le donne che coabitavano avevano paura, poi si è chiarito qual era il problema e le cose sono andate meglio».
Il modello ormai è rodato, e gli esempi positivi sono molti. «Per esempio, c’è stato il caso di due donne con tre bambini: abbiamo fatto un progetto con un sostegno sul piano psicologico (una veniva dall’alcolismo, una da una storia di violenza di genere), e ha funziona bene: si aiutano, i bambini hanno legato tra loro». Adesso l’associazione sta allargando l’esperienza ad alcuni uomini senza fissa dimora.
A volte l’idea della coabitazione nasce dalle donne stesse e allora è tutto più facile. «Abbiamo donne che sono in casa rifugio in quanto vittime di violenza: spesso il progetto di andare a vivere insieme nasce proprio da loro. La diffidenza iniziale, che scatta quando si è accolti in una convivenza numerosa (la casa più grande che abbiamo accoglie anche 18 persone, più i bambini), si può superare. Si impara a conoscersi, ci si lega, si comincia a fare la spesa insieme, ad organizzarsi. Abbiamo accolto da poco una donna africana, tra l’altro molto intelligente, una mediatrice culturale. Nei gruppi di auto mutuo aiuto lei dice: qui è come essere in famiglia. Non è scontato, perché mettiamo insieme la donna nigeriana con bambini piccoli, quella italiana con bambini terribili, quella con il disturbo bipolare, quella senegalese sola… stiamo parlando di un disastro articolato, dove c’è di tutto. Ma raramente scatta il rifiuto».
C’è da dire che, quando passano all’abitare condiviso, le donne non vengono abbandonate: l’associazione continua a seguirle. Per esempio, continuano a partecipare ai gruppi di auto mutuo aiuto, come quelli per le donne vittime di violenza, che devono superare il trauma, oppure quelli di sostegno alla genitorialità. E usufruiscono delle varie forme di sostegno, compreso il vestiario… «Ma la nostra marcia in più», spiega la presidente, «è che offriamo un contesto. La violenza e il disagio nascono sempre da uno stato di profonda solitudine. Inoltre le persone, che hanno bisogno di aiuto, subiscono spesso lo stigma del pregiudizio, causato dalla povertà stessa (se sei povero è perché te lo sei voluto, è perché sei pigro, perché non sei capace…). Noi procuriamo un contesto aperto: tutte le nostre attività laboratoriali (una dozzina in varie discipline) sono aperte a tutti, quindi vieni perché vuoi farlo, esattamente come tutti gli altri, non perché hai bisogno. E trovi relazioni: l’aiuto viene accettato all’interno di una relazione: se non c’è è umiliante».
Per questo, il valore più importante è il tempo: «Il tempo di vita è limitato, per tutti noi, ma proprio per questo è la cosa più importante che possiamo condividere. Dare il nostro tempo è dare la nostra vita. Questo fa la differenza. Si entra in un rapporto educativo in cui c’è la libertà di dire alcune cose: “devi cambiare rotta”, perfino “devi fare lo shampoo”… Queste persone hanno bisogno anche di questo, perché nessuno ha mai detto loro cosa fare o cosa non fare. Ogni tanto serve una “scossa elettrica”, e all’interno di un rapporto vero ci sta anche la possibilità di una guida morale, che può dire adesso basta, devi uscire da questa dipendenza, devi trovarti un lavoro, devi darti da fare…». Perché non bisogna assuefarsi, adattarsi alla condizione di assistiti. «Alle nostre operatrici io dico sempre che noi dobbiamo fare i buttafuori: accoglienza sì, ma per “buttare fuori”, valorizzando le risorse delle persone», conclude Silvana Migoni.
Paola Springhetti
La sfida dei nuovi bisogni
Un gruppo di ricerca analizza le esperienze della rete di Acjsif per individuare un nuovo modello di co-housing.
Tiziana Tarsia, ricercatrice dell’Università di Messina, dove insegna Scienze del Servizio Sociale, fa parte del Gruppo di supporto alla costruzione del modello di co-housing, che è uno degli obiettivi del progetto Ampliacasa. Del gruppo fanno parte anche Antonella Sarlo, dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria, con Monica Musolino e Maria Giuffrida, esperte di co-housing.
Il motivo per cui un progetto come questo ha bisogno di un supporto scientifico è legato al fatto che «La questione dell’accoglienza in Italia ha una storia radicata e importante, che però in alcuni contesti rischia di irrigidirsi in forme, che non sono le più adatte a questi tempi», spiega Tarsia. «I bisogni sono cambiati e di conseguenza anche l’accoglienza deve trovare risposte a domande sempre più complesse. Il supporto scientifico serve a questo: prende situazioni concrete e le astrae, facendo riferimento ad un modello teorico, per poi ritornare alle esperienze con una visione più ampia».
Per questo il gruppo si è mosso, censendo le esperienze di accoglienza della rete di Acisjf – che sono otto – e inviando un questionario di rilevazione. Questa prima fase è appena terminata: «Stiamo iniziando a mettere a confronto i materiali che abbiamo raccolto, per cogliere punti comuni e differenze. L’obiettivo è individuare alcune prassi, che possano essere proiettate in un modello innovativo di co-housing», racconta Tarsia. «In attesa dei risultati, possiamo dire che le esperienze dell’Acisjf hanno una forte identità comune: hanno uno stile di accoglienza comune, anche se con differenze sui vari territori. Sono esperienze caratterizzate da proattività e dall’obiettivo di creare autonomia per le donne che vengono accolte».
Il passo dall’accoglienza al co-housing non è scontato. Nel co-housing, infatti, «c’è la determinazione di più persone di mettersi insieme per costruire un progetto di vita comune ma di solito si tratta di persone autonome, non si tratta di persone con bisogni legati a situazioni di svantaggio o marginalità. E infatti, se si guarda alle esperienze italiane, si scopre che il co-housing è un modello generalmente legato a persone di classe sociale medio-alta».
La scommessa, quindi, è capire come allacciare queste esperienze alle situazioni di fragilità di cui si occupa Acisjf, cioè persone – in particolare donne – che, almeno inizialmente, l’autonomia non ce l’hanno. «Questo è il punto – continua Tarsia –, oggi ci sono altri bisogni, per i quali il vivere insieme potrebbe essere una soluzione. Ma a quale condizioni? La scommessa è collocare questa esperienza dentro percorsi che permettano alle persone di conquistarsela, l’autonomia, perseguendo un progetto di vita indipendente, che consenta un graduale distanziamento dall’assistenza e l’uscita dal sistema dei servizi».
L’analisi dei materiali raccolti dunque continua: i risultati saranno condivisi con i partner a febbraio, durante un apposito incontro formativo, nel frattempo si sta procedendo alla disamina delle varie buone pratiche di co-housing a livello nazionale, per poter avere un ventaglio ampio di riferimento.
Paola Springhetti
Ampliacasa
L’Acisjf per il co-housing: risposta innovativa delle reti di volontariato per l’accoglienza
Per le persone fragili, trovare un luogo da chiamare “casa” è fondamentale per poter conquistare stabilità e autonomia. Anzi, spesso è il punto fermo dal quale si può iniziare questo percorso.“Casa” è un luogo che dà sicurezza, in cui ci si sente a posto, in cui si stabiliscono relazioni, ci si aiuta reciprocamente, si cresce.
Il progetto
Il progetto AmpliaCasa è nato per sperimentare e avviare forme innovative di accoglienza, in cui le persone fragili – donne in particolare – trovino, oltre ad un tetto, un percorso di accompagnamento verso l’autonomia, in un’ottica di mutuo aiuto e di compartecipazione. Bisogna quindi individuare soluzioni di housing sociale che
- abbiano tempi definiti,
- siano sostenibili,
- implichino la compartecipazione,
- rispondano ai bisogni in modo flessibile
- rafforzino i percorsi di autonomia.
Queste soluzioni in Italia sono ancora insufficienti, soprattutto nelle regioni del Sud.
Gli obiettivi
Per questo il progetto punta a:
- costruire reti locali per l’accoglienza e l’housing sociale;
- costruire una rete tematica nazionale ACISJF;
- realizzare percorsi di formazione-intervento dei volontari delle reti per la conoscenza e l’approfondimento delle buone prassi di housing sociale;
- progettare e sperimentare modelli e strumenti innovativi e sostenibili di housing sociale e dei possibili servizi di accompagnamento;
- diffondere e condividere i valori e i modelli dell’housing sociale con le comunità locali e con la rete nazionale.
I protagonisti
Il progetto Ampliacasa – con il sostegno della Fondazione con il Sud – è ideato e realizzato da Acisif (Associazione Cattolica Internazionale al Servizio della Giovane). Nata nel 1902, Acisjf è un’organizzazione non governativa, riconosciuta con statuti speciali sia presso il Consiglio d’Europa che all’Unesco. Attualmente è presente su tutto il territorio nazionale e cerca di rispondere ai bisogni di oggi con case famiglia, segreterie, mense, affidi diurni, doposcuola, centri di ascolto e servizi di stazione. Sono:
- 15 le case di accoglienza e comunità per minori, per un totale di circa 600 posti letto.
- 5.000 i giovani che segue attraverso gli uffici di stazione.
- 20.000 i pasti gratuiti che distribuisce;
- 15.000 le ragazze e i giovani donne in gravi difficoltà.
Il progetto coinvolge l’intera Acisjf nazionale, ma ne sono protagoniste in particolare: Acisjf Fata Morgana (Reggio Calabria), che tra le altre cose fa parte della rete locale che gestisce l’Help center Casa di Lena, attivo nella stazione centrale di Reggio Calabria.
Acisjf – Associazione di Reggio Calabria: 1962 al 2012 ha accolto in due gruppi appartamento giovani donne minorenni in stato di disagio. Oggi, dopo la cessione dei gruppi appartamento alle cooperative costituite dagli ex-dipendenti, supporta con i propri volontari l’azione svolta da altri componenti della rete, nell’accoglienza di donne in difficoltà.
Acisjf Cagliari, che contribuisce alla gestione di case protette presenti nel territorio ed è partner del progetto “Custodire la famiglia”. Inoltre promuove, finanzia e realizza iniziative informative e formative sui temi legati al disagio e svolge attività di studio e ricerca.
Acisjf Messina Terra Solidale è partner attivo in un’ampia rete locale per l’accoglienza e l’integrazione di persone fragili.