Ultima tappa di Ampliacasa a Arborea e Arbus

I volontari delle reti di accoglienza del Sud s’incontrano ad Arborea e ad Arbus per l’ultimo appuntamento del progetto “Ampliacasa: l’Acisjf per il co-housing”.

Ultima tappa per “Ampliacasa: l’Acisjf per il co-housing”, il progetto ideato dalla Federazione Nazionale Acisjf e sostenuto da Fondazione Con il Sud. Dopo due anni di lavoro, i volontari delle reti di accoglienza del Sud Italia sono pronti a scrivere il capitolo finale di un nuovo modello di coabitazione che possa rispondere alle esigenze abitative emergenti e alle fragilità del mondo femminile.

L’appuntamento è dal 27 al 29 marzo p.v., presso la Casa di ferie “San Pancrazio” a Marina di Arborea e alla Casa della Giovane “Dott. Ettore Desogus” ad Arbus, grazie all’accoglienza di Acisjf Cagliari.  L’incontro di co-progettazione è finalizzato a individuare ed elaborare gli strumenti da utilizzare per supportare il co-housing e facilitare i percorsi e la transizione all’autonomia.

Sarà il “World Cafè” lo strumento che i volontari utilizzeranno per il confronto e la condivisione: ricreando l’atmosfera di un caffè, i partecipanti saranno chiamati a sedere a ciascuno dei tavoli tematici di discussione preparati, ruotando al successivo allo scadere del tempo a disposizione.

Il World Cafè valorizza le conversazioni informali, mobilitando in modo creativo pensieri e risorse, producendo apprendimento per generare cambiamento. Il processo si concluderà con una restituzione in plenaria.

I volontari potranno riflettere sulle fasi di avvio, gestione e sostenibilità di un progetto di co-housing, prendendo in esame temi come le risorse economiche per la start-up, la definizione del sistema di valori e regole, l’individuazione dei componenti della rete di accoglienza promotrice di un’iniziativa di co-housing.

Inoltre, i partecipanti discuteranno del patto educativo da stringere con le ospiti e dei possibili percorsi di responsabilizzazione che conducano all’autonomia. Infine, ai tavoli sarà presentato anche il tema della sostenibilità economica, del monitoraggio dei percorsi di autonomia e della necessità di attivare un piano di comunicazione legato al progetto di coabitazione.

Venerdì 29 marzo, i volontari potranno visitare la Casa della Giovane “Dott. Ettore Desogus” ad Arbus, la struttura in piazza Cavalleria donata all’Acisjf dalla famiglia Statzu e inaugurata il 23 marzo scorso. Alle 10.30 è previsto un incontro pubblico con le istituzioni locali, al quale parteciperà anche Simona Saladini, neo eletta presidente della Federazione Nazionale Acisjf.

 

Emergenza casa, serve una risposta

Il co-housing nasce a Copenhagen come forma di residenzialità, con spazi comuni destinati all’utilizzo collettivo. Ma qual è lo scenario italiano in tema di abitare?

di Mariarosaria Petti

Un milione e 708 mila famiglie italiane si trova attualmente senza una casa. È la stima di Federcasa e Nomisma, resa nota a inizio 2018. Una ferita che continua a sanguinare, diretta conseguenza di una crisi generale: meno dieci punti di Pil e 2 milioni di posti di lavoro persi significano più povertà e debiti e meno consumi. Il prezzo degli affitti è aumentato rispetto all’inizio del millennio, quando la metà della popolazione spendeva per i canoni di locazione non più del 20% del reddito annuo, contro il 75% dell’attuale. Le lunghe liste d’attese per un alloggio popolare e le occupazioni abusive rischiano di inasprire sempre di più una situazione già drammatica, intorno alla quale si polarizzano le disuguaglianze sociali: i più abbienti con seconde e terze case. I “nuovi” poveri senza un tetto sulla testa. L’emergenza casa si colloca in questo scenario.

Sono stati sperimentati diversi modelli di co-housing, fino al felice incontro tra la proposta residenziale innovativa e il mondo delle fragilità sociali.

Una casa per tutti. Il diritto all’abitazione è sancito dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, un baluardo per la dignità umana. La casa è ciò che dà forma all’identità della persona, il luogo sicuro dove scrivere la propria biografia. Una risposta all’emergenza abitativa potrebbe essere quella del co-housing, termine con cui si indica un insediamento abitativo composto da alloggi privati, corredato da ampi spazi comuni destinati all’uso collettivo e alla condivisione tra i co-residenti. Il primo esperimento moderno di co-housing può essere considerato il palazzo realizzato da Otto Fick nel 1903 a Copenhagen e chiamato Fick’s Collective. L’edificio aveva una sola cucina centrale alla quale potevano accedere tutti gli appartamenti. Da allora sono stati sperimentati diversi modelli di co-housing, fino al felice incontro tra la proposta residenziale innovativa e il mondo delle fragilità sociali. Si può definire co-housing sociale puro la libera scelta come stile di vita di quei residenti che abitano in appartamento da soli o con altre persone (massimo 2-3) e condividono spazi comuni. Si tratta invece di un co-housing mediato quando i residenti vivono una situazione di fragilità e necessitano di un supporto sociale. Il percorso, in questi casi, è piuttosto lungo (1 anno circa) e solo dopo l’acquisizione di autonomia, i co-residenti possono andare a vivere da soli. L’housing sociale è la residenzialità in appartamenti messi a disposizione con un supporto assistenziale leggero e per un tempo medio-lungo, durante il quale le persone acquisiscono competenze (incubatore) da riproporre in futuro.

Pensare in grande e agire in piccolo

Il 5 e 6 ottobre i volontari delle reti di accoglienza del Sud hanno fatto il punto sul percorso compiuto in un anno e mezzo di lavoro con il progetto Ampliacasa, delineando in modo partecipato un modello di co-housing.

di Paola Springhetti

 

È stato un momento costruttivo, di quelli in cui si sente che ci si sta avvicinando all’obiettivo di un percorso e che il risultato raggiunto provocherà riflessione e cambiamento. L’Incontro nazionale per la costruzione partecipata di modelli di co-housing si è svolto a Roma il 5 e 6 ottobre ed è stato una tappa importante del progetto Ampliacasa. Per un’associazione storica come Acisjf – che in Italia è nata nel 1902 – coniugare identità, esperienza e sapere sedimentato e innovazione non è facile. Ciò nonostante, negli anni l’associazione è sempre stata capace di rinnovarsi, adattando le forme della propria accoglienza ai bisogni che cambiavano, ogni volta con la fatica di inventare e sperimentare modelli, formare persone, costruire alleanze e reti, pur mantenendo fermi alcuni punti fissi: l’accompagnamento alla conquista dell’autonomia e il rifiuto dell’assistenzialismo, per esempio, e il rispetto e l’empowerment della persona.

In quest’ottica si colloca anche il progetto Ampliacasa: un percorso finanziato dalla Fondazione con il Sud per arrivare a definire un modello di co-housing che possa rispondere alle nuove esigenze delle donne – sole o con figli, italiane o straniere – che si trovano in difficoltà. Dunque, non perché il co-housing in un certo senso va di moda, ma perché può essere uno strumento efficace per raggiungere l’autonomia.

Le due giornate di ottobre sono state dedicate a fare il punto sul percorso compiuto in questo anno e mezzo di lavoro e a cominciare a delineare in modo partecipato il modello di co-housing: i partecipanti delle diverse regioni italiane si sono confrontati per delineare non un modello astratto, ma quello che da una parte sembra innestarsi meglio nella storia e nell’identità dell’associazione e dall’altra sembra più adeguato per rispondere ai bisogni specifici dei diversi territori. Per questo era importante il metodo partecipativo: se un modello deve essere costruito, è importante che concorrano a delinearlo anche le persone che ogni giorno lavorano sui territori e accompagnano le persone in difficoltà.

Durante le precedenti tappe del progetto erano state individuate quattro diverse tipologie di abitare che potrebbero essere raccolte sotto l’etichetta di co-housing.

  1. Co-housing sociale puro: i residenti abitano in un appartamento, con altre due o tre persone, e hanno scelto di partecipare a quella esperienza sulla base di una motivazione forte.
  2. Housing sociale: le persone convivono in accoglienza per un tempo lungo, in un alloggio autonomo, acquisiscono competenze (si tratta in questo senso di un incubatore) e poi vanno a vivere in un altro alloggio, in modo completamente autonomo.
  3. Housing first: le persone, con problemi di salute mentale o in situazione di disagio abitativo cronico, sono direttamente inserite in appartamenti, nella convinzione che questo crei le condizioni per intraprendere percorsi di benessere, integrazione sociale, autonomia (questa metodologia è stata sperimentata soprattutto con i senza fissa dimora).
  4. Co-housing (sociale) mediato. È pensato per residenti in situazione di fragilità, che necessitano di un supporto sociale. È previsto un periodo di convivenza in una struttura di accoglienza collettiva e solo dopo si sceglierà di andare a vivere autonomamente o con altri.

Ognuno di questi modelli ha caratteristiche comuni agli altri, le cosiddette invarianti (ad esempio, il fatto che siano disponibili unità abitative disponibili, la motivazione e la scelta personale degli abitanti, la presenza di spazi e servizi ad uso comune) ed altre che cambiano o che si adeguano ai diversi contesti. Tenendo conto della realtà associativa, i partecipanti all’incontro di Roma hanno individuato nel co-housing sociale mediato il modello che sembra rispondere meglio ai bisogni delle persone che Acisjf segue e alla sua mission.

È un modello impegnativo, che richiede per l’avvio, la gestione e la sostenibilità, una serie di attenzioni, azioni e impegni: la capacità di fare rete e di costruire collaborazioni attorno all’esperienza; un’attenta analisi dei bisogni; la selezione e presa in carico degli ospiti; la formazione e l’accompagnamento iniziale di operatori e volontari; oltre, ovviamente, a risorse economiche adeguate e così via. Con, in più, un’accortezza: nell’avviare un’esperienza di co-housing meglio pensare in grande ma agire in piccolo, cominciando dall’accoglienza di un piccolo numero di persone, fino a quando il progetto non va a regime e può quindi ampliarsi.

 

Ampliacasa inaugura “AmpliaContest. Immagini che raccontano casa”

Al via “AmpliaContest. Immagini che raccontano casa”. Emergenza abitativa, povertà emergenti, desiderio di autonomia e necessità di condivisione: tutto questo in uno scatto.

Ampliacasa inaugura “AmpliaContest. Immagini che raccontano casa”: una call per gli utenti dei social per raccontare in uno scatto la “casa”, il significato dell’abitare, della condivisione e le difficoltà legate all’emergenza abitativa, nell’ambito del progetto promosso da Acisjf e sostenuto da Fondazione Con il Sud.

L’obiettivo dell’iniziativa è quello di creare un album dove ciascuno possa offrire alla rete un pezzo della propria visione dell’abitare.

Partecipare è semplice! Cosa non deve mancare in casa? Che cosa è per noi casa? Dove ci sentiamo a casa? Immortaliamo il momento che possa racchiudere la risposta e inviamo il nostro scatto alla pagina Facebook “Ampliacasa”, corredando l’immagine con l’hashtag #ampliacontest.

L’abitare condiviso aiuta a raggiungere la meta

Cagliari. Nella rete di Ampliacasa l’esperienza di Donne al Traguardo.

«Il traguardo è l’obiettivo che tutte le persone devono avere e che devi avere fisso davanti a te, per mantenere la rotta. Forse non lo raggiungerai mai, ma bisogna avercelo: questa è la differenza tra gli accattoni e i viandanti». Silvana Migoni è la presidente dell’associazione Donne al traguardo, nata nel 2001 a Cagliari per valorizzare la presenza femminile in tutti gli ambiti della società e per attivare forme di solidarietà nei confronti delle donne in difficoltà. All’inizio il circolo delle Donne al Traguardo era un centro di ascolto e un luogo in cui si organizzavano laboratori amatoriali aperti a tutti, ma subito venne organizzata una raccolta fondi con l’obiettivo di aprire una casa di accoglienza per donne in emergenza. Oggi Donne al Traguardo gestisce un centro antiviolenza e cinque strutture di accoglienza per donne in difficoltà, compresa una casa rifugio per quelle che hanno subito violenza. Dal primo gennaio il Comune di Cagliari ha stipulato una convenzione per un progetto per gli uomini senza fissa dimora e l’associazione punta ad aprire anche un dormitorio, grazie a un finanziamento della Fondazione Banco di Sardegna.

Abbiamo incontrato Silvana Migoni durante le giornate formative del progetto Ampliacasa, che si sono svolte a Roma il 16  il 17  febbraio 2018. Donne al Traguardo è infatti interessata al tema del co-housing anche perché l’abitare condiviso  è uno degli sbocchi che l’associazione ha individuato per permettere alle donne di raggiungere una piena autonomia.

La premessa è che l’associazione fa attività a 360°: prima accoglienza di donne in difficoltà, sostegno all’indigenza attraverso la raccolta e le redistribuzione di vestiti e beni di prima necessità, aggregazione sociale attraverso i laboratori e molte altre attività, accompagnamento al lavoro, sostegno psicologico attraverso i gruppi di auto mutuo aiuto. Insomma, cerca di articolare risposte diverse per bisogni diversi.

«Abbiamo cominciato un’esperienza di abitare condiviso per le donne, che dall’assistenza potevano passare all’autonomia. Mentre l’accoglienza nelle strutture è totalmente a nostro carico e ha un tempo limite (quattro mesi, che di solito è sufficiente per trovare soluzioni, anche se in alcuni casi – per esempio donne con le pene alternative al carcere o madri sole con neonati, i termini si possono allungare), qui le donne devono contribuire alle spese, e possono stare per un tempo illimitato».

Il problema è evitare che la condizione di “assistite” si cronicizzi: l’accoglienza fin dall’inizio ha l’obiettivo di riportare le persone all’autonomia. Per questo, «laddove ci sono fragilità di tipo economico, proponiamo di andare in appartamenti: li affitta l’associazione, che si intesta anche le utenze, sia perché queste persone non potrebbero avere un contratto d’affitto, in quanto non hanno una busta paga o un reddito, sia per stemperare possibili motivi di conflitto. Però loro devono contribuire alle spese. È quindi un abitare condiviso parzialmente sostenuto. L’abitare condiviso comunque consente di prendere la residenza».

Attualmente sono una dozzina le donne che fanno l’esperienza dell’abitare condiviso e in genere sono tre in un appartamento: «è un numero perfetto», spiega Migone, «perché due sono poche – se  si accende un conflitto è difficile risolverlo – mentre in tre la dinamica è più articolata».

La possibilità che scoppino conflitti c’è, ma si cerca di prevenirla con un’attenta fase di ascolto e valutazione, prima che inizi la convivenza.  «Molto dipende dalla nostra capacità, di capire se le diverse persone saranno in grado di convivere. È chiaro infatti, che si tratta di donne che vengono da storie di disagio più o meno intenso e tra l’altro non sempre, se c’è una patologia psichiatrica, emerge subito. Quindi molto dipende dal periodo di osservazione e dalle conclusioni che abbiamo tirato. Dopo, di solito, la convivenza funziona bene. Certo, abbiamo avuto anche persone molto particolari, come una donna che che aveva subito violenza e che aveva incubi, era sonnambula, gridava… All’inizio le donne che coabitavano avevano paura, poi si è chiarito qual era il problema e le cose sono andate meglio».

Il modello ormai è rodato, e gli esempi positivi sono molti. «Per esempio, c’è stato il caso di due donne con tre bambini: abbiamo fatto un progetto con un sostegno sul piano psicologico (una veniva dall’alcolismo, una da una storia di violenza di genere), e ha funziona bene: si aiutano, i bambini hanno legato tra loro». Adesso l’associazione sta allargando l’esperienza ad alcuni uomini senza fissa dimora.

A volte l’idea della coabitazione nasce dalle donne stesse e allora è tutto più facile. «Abbiamo donne che sono in casa rifugio in quanto vittime di violenza: spesso il progetto di andare a vivere insieme nasce proprio da loro. La diffidenza iniziale, che scatta quando si è accolti in una convivenza numerosa (la casa più grande che abbiamo accoglie anche 18 persone, più i bambini), si può superare. Si impara a conoscersi, ci si lega, si comincia a fare la spesa insieme, ad organizzarsi. Abbiamo accolto da poco una donna africana, tra l’altro molto intelligente, una mediatrice culturale. Nei gruppi di auto mutuo aiuto lei dice: qui è come essere in famiglia. Non è scontato, perché mettiamo insieme la donna nigeriana con bambini piccoli, quella italiana con bambini terribili, quella con il disturbo bipolare, quella senegalese sola… stiamo parlando di un disastro articolato, dove c’è di tutto. Ma raramente scatta il rifiuto».

C’è da dire che, quando passano all’abitare condiviso, le donne non vengono abbandonate: l’associazione continua a seguirle. Per esempio, continuano a partecipare ai gruppi di auto mutuo aiuto, come quelli per le donne vittime di violenza, che devono superare il trauma, oppure quelli di sostegno alla genitorialità. E usufruiscono delle varie forme di sostegno, compreso il vestiario… «Ma la nostra marcia in più», spiega la presidente, «è che offriamo un contesto. La violenza e il disagio nascono sempre da uno stato di profonda solitudine. Inoltre le persone, che hanno bisogno di aiuto, subiscono spesso lo stigma del pregiudizio, causato dalla povertà stessa (se sei povero è perché te lo sei voluto, è perché sei pigro, perché non sei capace…). Noi procuriamo un contesto aperto: tutte le nostre attività laboratoriali (una dozzina in varie discipline) sono aperte a tutti, quindi vieni perché vuoi farlo, esattamente come tutti gli altri, non perché hai bisogno. E trovi relazioni: l’aiuto viene accettato all’interno di una relazione: se non c’è è umiliante».

Per questo, il valore più importante è il tempo: «Il tempo di vita è limitato, per tutti noi, ma proprio per questo è la cosa più importante che possiamo condividere. Dare il nostro tempo è dare la nostra vita. Questo fa la differenza. Si entra in un rapporto educativo in cui c’è la libertà di dire alcune cose: “devi cambiare rotta”, perfino “devi fare lo shampoo”… Queste persone hanno bisogno anche di questo, perché nessuno ha mai detto loro cosa fare o cosa non fare. Ogni tanto serve una “scossa elettrica”, e all’interno di un rapporto vero ci sta anche la possibilità di una guida morale, che può dire adesso basta, devi uscire da questa dipendenza, devi trovarti un lavoro, devi darti da fare…». Perché non bisogna assuefarsi, adattarsi alla condizione di assistiti. «Alle nostre operatrici io dico sempre che noi dobbiamo fare i buttafuori: accoglienza sì, ma per “buttare fuori”, valorizzando le risorse delle persone», conclude Silvana Migoni.

Paola Springhetti

La sfida dei nuovi bisogni

Un gruppo di ricerca analizza le esperienze della rete di Acjsif per individuare un nuovo modello di co-housing.

Tiziana Tarsia, ricercatrice dell’Università di Messina, dove insegna Scienze del Servizio Sociale, fa parte del Gruppo di supporto alla costruzione del modello di co-housing, che è uno degli obiettivi del progetto Ampliacasa. Del gruppo fanno parte anche Antonella Sarlo, dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria, con Monica Musolino e Maria Giuffrida, esperte di co-housing.

Il motivo per cui un progetto come questo ha bisogno di un supporto scientifico è legato al fatto che «La questione dell’accoglienza in Italia ha una storia radicata e importante, che però in alcuni contesti rischia di irrigidirsi in forme, che non sono le più adatte a questi tempi», spiega Tarsia. «I bisogni sono cambiati e di conseguenza anche l’accoglienza deve trovare risposte a domande sempre più complesse. Il supporto scientifico serve a questo: prende situazioni concrete e le astrae, facendo riferimento ad un modello teorico, per poi ritornare alle esperienze con una visione più ampia».

Per questo il gruppo si è mosso, censendo le esperienze di accoglienza della rete di Acisjf – che sono otto – e inviando un questionario di rilevazione. Questa prima fase è appena terminata: «Stiamo iniziando a mettere a confronto i materiali che abbiamo raccolto, per cogliere punti comuni e differenze. L’obiettivo è individuare alcune prassi, che possano essere proiettate in un modello innovativo di co-housing», racconta Tarsia. «In attesa dei risultati, possiamo dire che le esperienze dell’Acisjf hanno una forte identità comune: hanno uno stile di accoglienza comune, anche se con differenze sui vari territori. Sono esperienze caratterizzate da proattività e dall’obiettivo di creare autonomia per le donne che vengono accolte».

Il passo dall’accoglienza al co-housing non è scontato.  Nel co-housing, infatti, «c’è la determinazione di più persone di mettersi insieme per costruire un progetto di vita comune ma di solito si tratta di persone autonome, non si tratta di persone con  bisogni legati a situazioni di svantaggio o marginalità. E infatti, se si guarda alle esperienze italiane, si scopre che il co-housing è un modello generalmente legato a persone di classe sociale medio-alta».

La scommessa, quindi, è capire come allacciare queste esperienze alle situazioni di fragilità di cui si occupa Acisjf, cioè persone – in particolare donne – che, almeno inizialmente, l’autonomia non ce l’hanno. «Questo è il punto – continua Tarsia –, oggi ci sono altri bisogni, per i quali il vivere insieme potrebbe essere una soluzione. Ma a quale condizioni?  La scommessa è collocare questa esperienza dentro percorsi che permettano alle persone di conquistarsela, l’autonomia, perseguendo un progetto di vita indipendente, che consenta un graduale distanziamento dall’assistenza e l’uscita dal sistema dei servizi».

L’analisi dei materiali raccolti dunque continua: i risultati saranno condivisi con i partner a febbraio, durante un apposito incontro formativo, nel frattempo si sta procedendo alla disamina delle varie buone pratiche di co-housing a livello nazionale, per poter avere un ventaglio ampio di riferimento.

Paola Springhetti

Messina: nuova rete dell’accoglienza

Nuova tappa nel cammino del progetto Ampliacasa: chiamate a raccolta tutte le realtà del territorio impegnate in servizi di accoglienza.

Venti volontari e diverse le realtà coinvolte per pensare ad una nuova rete dell’accoglienza per la città di Messina. Si è svolto lo scorso 9 aprile un incontro presso i locali della Casa di accoglienza per donne con bambini del C.I.R.S. Messina (Comitato Italiano Reinserimento Sociale). L’evento è stato promosso nell’ambito del progetto Ampliacasa, l’Acisjf per il cohousing – risposta innovativa delle reti di volontariato per l’accoglienza, sostenuto da Fondazione Con il Sud.

«Le associazioni presenti si occupano a vario titolo sul territorio di servizi d’accoglienza – spiega Lidia Beninati, presidente del gruppo Acisjf Messina Terra Solidale – in particolare vi erano il C.I.R.S. Onlus, l’Oratorio San Luigi Guanella, l’A.C.C.I.R. (Associazione Cattolica Culturale Italiana Radioperatori), la F.I.D.A.P.A. (Federazione Italiana Donne Arti Professioni e Affari), il Centro Aiuto alla Vita, Non solo 15 Onlus».

Al centro della condivisione un obiettivo primario: costruire una rete territoriale dell’accoglienza, attraverso la testimonianza delle esperienze peculiari che ciascuna associazione vive in prima linea.

«Ogni partecipante ha raccontato il proprio vissuto in merito al servizio svolto nell’associazione di appartenenza. È emerso un ampio panorama di esperienze rivolte a persone con disabilità, donne vittime di violenza, adolescenti con disagio sociale, ragazze madri, famiglie con bambini ospedalizzati, immigrati» commenta Beninati.

Tante realtà diverse ed eterogeneo il servizio di accoglienza offerto ma con un comune denominatore: «È emerso che accogliere è soprattutto accettare l’altro senza pregiudizio, dare ascolto alla sua richiesta di aiuto e sostenerlo nel cercare insieme le possibili soluzioni per affrontare e superare il disagio vissuto» conclude la presidente di Acisjf Messina Terra Solidale.

Da Messina è l’alba di una storia, quella di una rete pronta a rispondere alle nuove sfide dell’accoglienza.

Mariarosaria Petti

 

 

Inaugurata la Casa della Giovane ad Arbus

Per ora offre servizi, ma l’obiettivo è farla diventare un’esperienza di cohousing per donne in condizione di fragilità.

Un taglio del nastro, tra emozione ed entusiasmo, segna ad Arbus l’inizio di un nuovo cammino dell’Acisjf (Associazione Cattolica Internazionale al Servizio della Giovane) assieme alla comunità. È arrivato ad un momento cruciale, infatti, il progetto Ampliacasa: un percorso che ha messo in rete associazioni di volontariato e che ha come obiettivo finale quello di aprire una struttura per il cohousing.

IMG_2164Obiettivo, questo, raggiungibile grazie alla generosità della famiglia Statzu, che ha messo a disposizione un edificio storico in piazza della Cavalleria ad Arbus. Intanto, il 23 settembre scorso, alla presenza di autorità religiose e civili e dei referenti nazionali, è stata inaugurata la “Casa della giovane Ettore Desogus”, un luogo di ascolto, che nel giro di un mese offrirà vari servizi, come uno sportello d’ascolto e servizi educativi di cui si occuperà la cooperativa Sinergie. «Da venti anni», spiega la presidente Roberta Schirru, «portiamo avanti progetti con i Comuni per offrire un sopporto alla collettività. Ci confronteremo con il Comune di Arbus per capire quali esigenze sin da ora possiamo curare».

La casa diventerà poi un luogo di coabitazione solidale per donne in situazioni di disagio, lontane dalla famiglia o dal proprio ambiente: ciò che si vuole sperimentare è una soluzione nuova di accoglienza, in cui le persone fragili possano trovare, oltre ad un tetto, anche un affiancamento in un’ottica di auto mutuo aiuto, ovvero di un aiuto reciproco, evitando i rischi dell’assistenzialismo e puntando invece sul riscatto sociale, su percorsi di autonomia che permettano di riappropriarsi della propria vita.

Di tutto questo si è parlato nel convegno organizzato appunto il 23 settembre in occasione dell’inaugurazione della Casa, avvenuta nel teatro Murgia di Guspini, alla presenza del Vescovo padre Roberto Carboni, della famiglia Statzu, della presidente nazionale Acisjf Patrizia Pastore, della presidente emerita Emma Cavallaro e del presidente di Sardegna Solidale Giampiero Farru.

Il vescovo, padre Carboni, ha incoraggiato tutti dicendo: «L’ascolto a cui voi vi dedicherete è molto importante è un’attitudine dell’anima ed è già di per sé accoglienza. Accoglienza della persona, dei suoi bisogni, delle sue esperienze, delle sue sofferenze… Trovare il tempo per ascoltare è importantissimo, ci sono persone che solo ad essere ascoltate cominciano a stare meglio. C’è tanta solitudine e c’è tanta poca attenzione agli altri. Apparentemente c’è sempre qualcosa di più importante da fare e per cui impegnarsi. Il tempo dell’ascolto non è tempo perso, è tempo donato, ed è tempo che affina il vostro spirito e lo mette in atteggiamento di accoglienza. Sappiate che in me troverete sempre accoglienza ed ascolto».

Parole significative anche quelle del direttore della Caritas don Angelo Pittau: «C’è bisogno del sostegno della comunità civile ed ecclesiale.  I progetti si realizzano con l’aiuto di tutti. La situazione delle famiglie e delle donne è allarmante. Chi fa parte di associazioni di volontariato tocca con mano ogni giorno lo stato di emergenza. Salutiamo la presenza dell’Acisjf nel territorio come un segno di speranza e stimolo a sensibilizzare le nostre comunità».

Gli fa eco Emma Cavallaro: «Il volontariato è un dono che ci permette di stare dalla parte di chi ha bisogno. Tutto quello che si riceve è più di quello che si dona». Poi l’invito unanime ad un unirsi al gruppo dei volontari: «Se ognuno dà anche poco, assieme a quanto fanno gli altri, diventa tanto. Ho conosciuto tante persone impegnate nell’Acisjf e insieme non abbiamo fatto assistenzialismo, ma offerto risposte ad un bisogno concreto».

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A presentare la realtà ultra centenaria dell’Acisjf e la nuova sfida del progetto Ampliacasa, la presidente nazionale Patrizia Pastore: «Come il Vangelo necessita di essere costantemente incarnato per rispondere ai segni dei tempi, così come laici impegnati nel volontariato abbiamo bisogno di rivestire di un senso sempre nuovo la parola accoglienza. E la risposta che Acisjf prova a dare nel 2017 si chiama cohousing. Grazie ad Ampliacasa, un nuovo progetto sostenuto da Fondazione con il Sud, l’Acisjf con le tre partner meridionali di Cagliari, Messina e Reggio Calabria ha l’occasione di studiare nuove forme di coabitazione per persone in situazioni di marginalità e fragilità, proponendo un nuovo modello».

Paola Springhetti

 

 

 

Messina: costruire rete per il cohousing

Il 9 ottobre un incontro con le associazioni del territorio per cercare insieme risposte al problema dell’abitare.

Prosegue il percorso di Acisif Messina – Terra Solidale all’interno del progetto Ampliacasa, di cui l’associazione è partner (ne abbiamo parlato qui). Acisjf ha invitato le altre associazioni del territorio ad un incontro che si terrà il 9 ottobre 2017, alle ore 17.00, presso la sede del C.I.R.S. Onlus, salita mons. Bruno (accanto PalaCultura), a Messina.

L’obiettivo è quello di avviare un percorso tra associazioni, che si occupano a vario titolo di accoglienza, in modo da creare reti permanenti per l’abitare sociale a livello locale. Una rete, insomma, che condivida alcuni obiettivi e che permetta di valorizzare al massimo le potenzialità e le risorse del territorio, per trovare risposte ad un problema pressante, qual è quello dell’emergenza abitativa per le persone in condizione di fragilità.