Restart! – Il parere del Dipartimento di scienze della formazione dell’Università di Catania

  Intervista al Prof. Orazio Licciardello,

  docente di Psicologia Sociale dell’Università di Catania.

Professore buongiorno. Abbiamo già presentato il progetto Restart! Promosso dalla Cooperativa       Sociale  Etnos e quindi vorremmo focalizzarci sugli aspetti che più riguardano il Vostro lavoro     scientifico. Partendo da lontano, il lavoro dei campi, il contatto con la natura, possono incidere sul   recupero di soggetti svantaggiati, siano essi tossicodipendenti o donne vittime di violenza?

 Risposta.

 Certamente si. Dipende, però, dal fatto che tale attività venga considerata dal soggetto come parte   della sua progettualità di vita, il complesso dei cosiddetti “Possibile Selves”. Come mi vedo nel futuro?   Che tipo di rilevanza assume l’attività che mi viene proposta/svolgerò per la mia vita futura, secondo come io la immagino? Si tratta di aspettative a breve termine (i “Sé attesi”), speranze proiettate nel tempo (i “Sè sperati”), ma anche paure di fallimenti (i “Sé temuti”).

Tanto più l’attività proposta/svolta assume rilevanza nella rappresentazione che il soggetto ha del suo futuro, tanto più la stessa diventa spinta motivazionale (effetto energizzante) e oggetto privilegiato di investimento delle sue energie (effetto focalizzante).

In tal senso, la vita dei campi ed il contatto con la natura, certamente rilevanti anche sul piano simbolico, possono costituire una parte significativa del processo riabilitativo ma non è detto che siano di per sé determinanti, secondo quanto un approccio del tipo stimolo-risposta potrebbe indurre a ritenere.

In generale, e secondo quanto la stessa OMS ormai da tempo indica, occorre coinvolgere già nelle primissime fasi progettuali il soggetto interessato, quale che sia il suo livello cognitivo, costruendo la necessaria alleanza psicologica ai fini del possibile successo: si tratta di un processo spesso di estrema complessità ma che appare indispensabile ai fini degli esiti positivi.

Gli interventi che rimandano ad approcci di tipo impositivo, o che come tali vengono percepiti, anche al di là dell’intenzionalità e/o della consapevolezza di chi li applica, rischiano l’insuccesso o comunque sono disfunzionali rispetto a processi riabilitativi finalizzati all’acquisizione dell’autonomia.

Che tipo di indagine conoscitiva porterete avanti nel progetto?

Risposta.

Considerate le caratteristiche delle persone interessate e gli obiettivi di autonomizzazione che il progetto si prefigge, l’approccio proposto si ispira alla modellistica delle Ricerca/Azione ed al monitoraggio continuo degli effetti degli interventi nei quali tali persone sono convolte: Self Image, significato dell’attività svolta, in maniera specifica ed in riferimento alla loro progettualità di vita, livello di benessere percepito, qualità della relazione con gli operatori.

Lo stesso approccio verrà utilizzato anche relativamente alla qualità della relazione percepita da parte degli operatori coinvolti: questi, infatti, costituiscono la risorsa fondamentale del processo riabilitativo, nel quale inevitabilmente, così come i pazienti, investono anche le loro emozioni. La qualità della relazione operatore/paziente, quale che sia il ruolo dei primi, ed il tipo e livello di emozioni che, in termini di reciprocità, intessono la loro quotidianità relazionale, oltre che sul successo del processo riabilitativo, si riverberano anche sulla qualità della vita percepita dagli operatori medesimi e sul possibile rischio di burn-out.

E’ possibile secondo Lei, che da questo “esperimento” possa nascere un nuovo modello di integrazione e recupero?

Risposta.

Penso di si, ma in termini di metodologia generale, come del resto è tipico della Ricerca/Azione, atteso che ogni intervento va calibrato in relazione al tipo di esigenze dell’utenza ed al tipo di risorse umane (e materiali) disponibili.

Nel merito, le risorse umane vanno considerate non solo e non tanto in termini di titoli professionali formalmente posseduti, ovviamente fondamentali, quanto in riferimento al tipo di formazione specifica, ed alla funzionalità della stessa rispetto agli obiettivi progettuali.

E’ fondamentale riflettere sul fatto la “de-istituzionalizzazione” investe soprattutto processi di tipo psico-socio-relazionale. In tal senso, è fondamentale la formazione specifica, di base ed in itinere, dei personale che opera nella struttura, nonché l’avvio di processi di cambiamento anche nei contesti sociali ed Istituzionali (Scuola, Famiglie; etc.).

 Diversamente, considerando solamente gli aspetti normativo-formali (come per lo più è stato fatto), si corre il rischio (e gli esempi, purtroppo, non mancano affatto) di una “de-istituzionalizzazione” nominale, cui corrisponde l’Istituzionalizzazione sostanziale (si cambia nome alle organizzazioni, strutture, etc., ma la sostanza delle relazioni interne tra operatori e pazienti non cambia).

Lasciamo da parte per un attimo l’aspetto clinico, quanto conta il lavoro di gruppo per recuperare la fiducia nel prossimo e nella comunità?

Risposta.

La vita di ciascuno di noi, sin dal concepimento, si scandisce all’interno di relazioni di tipo gruppale, che concorrono a costruire il suo Self (personale e sociale) ed a co-determinare la sua progettualità di vita.

Secondo quanto è stato rilevato, anche quando siamo da soli spendiamo la maggior parte del nostro tempo a prepararci alla vita di relazione: ad es., quando ci guardiamo alo specchio, o ci prefiguriamo l’effetto sugli altri del nostro comportamento, successi, insuccessi.; strettamente correlato anche l’effetto (in termini di speranze, paure) delle reazioni degli altri su di noi.

Imparare a sperimentarsi nelle relazioni di gruppo, imparare a dare senso positivo/propositivo alle aspettative degli altri nei nostri confronti (e viceversa), significa imparare a vivere le emozioni senza scotomizzarle e senza subirle e, in tal senso, imparare a gestire il proprio ruolo sociale.

A proposito di “comunità” intesa come insieme di uomini e donne che vivono e sostengono lo stesso territorio, è possibile che questo progetto generi en effetto emulazione sui giovani del territorio, sulle imprese e sulla società in generale?

Risposta.

La comunità, sia intramuros (operatori e pazienti), sia in senso ampio, il paese, la Città, etc. (ma su questo concetto, andrebbe fatta una riflessione ben più ampia di quanto possibile in questa sede) costituisce lo sfondo della vita di relazione delle persone, dei gruppi e delle organizzazioni.

Un progetto come questo prevede necessariamente interventi di Ricerca/Azione relativi alle risorse umane che il contesto offre come possibilità di inserimento sociale (atteggiamenti positivi, reali occasioni di accoglienza), come anche alle limitazioni che possono risultare ostative rispetto al processo di integrazione atteggiamenti (di fatto) ostativi, pregiudizi e stereotipi, etc.

I nostri territori vivono una forte condizione di stress che deriva dalle difficoltà economiche. Che consiglio si sente di dare a chi non vuole abbandonare la sua terra ma desidera crearvi qualcosa che possa permetterne la rinascita?

Risposta.

Sarebbe facile, ed altrettanto scontato, consigliare di non mollare ed impegnarsi in maniera progettualmente attiva. Tuttavia, si tratta di atteggiamenti di tipo volontaristico dagli esiti limitati.

La Sicilia è ricca di risorse e possibilità che tuttavia occorre imparare a “vedere con gli occhi della mente” e la gran parte dei nostri giovani non è preparata a farlo.

Purtroppo, la nostra Scuola è fortemente caratterizzata dalla Cultura matricentrica, che se appare importante come sostegno allo sviluppo dei primi anni di vita, diventa poi una forte limitazione poiché perimetra l’orizzonte esistenziale dei ragazzi, formandoli alla dipendenza (ed alla cultura/sicurezza del posto fisso, come diritto), piuttosto che all’autonomia progettuale ed alla Cittadinanza Attiva, come la Società del Cambiamento richiederebbe.

Com’è facile riscontrare, questo di tipo di cultura impregna fortemente il nostro sociale. Occorre cominciare a lavorare nel territorio, nelle Istituzioni formative (Scuole e Università), nei corpi intermedi (Sindacati e Organizzazioni di Servio e di Volontariato).

La mia, ormai lunghissima (sono più di 40 anni), esperienza di docente mi ha offerto la possibilità (ma direi la fortuna), di lavorare con moltissimi giovani e di scoprire che basta poco per attivare in loro l’esigenza di essere protagonisti attivi della loro vita e del contesto nel quale vivono.

La società di oggi richiede che ciascuno sia capace di autonomia (altra cosa è l’individualismo) e cooperazione. In tal senso, risulta fondamentale la fiducia, negli altri ed in sè stessi. Le ricerche dimostrano che la fiducia è strettamente correlata alle capacità metacognitive, ovvero al pensiero complesso e ad una positiva immagine di sé: più elevati sono gli strumenti cognitivi e, insieme, l’immagine di sé, più elevata è la fiducia, in sè stessi e negli altri. La qualità della formazione risulta, in tal senso, essenziale.

 

Secondo lei, quale ruolo può assumere il nostro progetto rispetto al territorio di riferimento?

Risposta.

Dipende dal livello di successo e, insieme, dal significato che lo stesso può assumere agli occhi di quanti nel territorio vivono (giovani, rappresentanti istituzionali, Stakeolder).

Al di là della diffusione delle informazioni sulle attività, anche in questo caso, è opportuno rifuggere dall’utilizzazione di modelli del tipo stimolo-risposta. Per quanto possa risultare sgradevole, occorre considerare anche che l’auspicabile successo del progetto possa non essere gradito agli occhi di taluni: speriamo non sia così, ma non può essere escluso.

Ciò che si può e si deve fare (come peraltro previsto nel progetto)  è impegnarsi al massimo per il successo e coinvolgere il più possibile la Comunità, i suoi rappresentanti, i giovani, le Scuole, le organizzazioni di servizio, il volontariato, etc., puntando ad un effetto moltiplicatore.

 

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