Aldo Bonomi:”Nell’epoca dell’economia leggera, il Terzo settore è più importante che mai”

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«Nell’epoca dell’economia leggera, il Terzo settore è più importante che mai», spiega il sociologo Aldo Bonomi, ma «deve essere in grado di promuovere una nuova forma di sussidiarietà capace di cogliere le sfide dell’economia circolare e far fronte alla crisi del welfare» «Siamo dentro l’economia leggera. Un’economia che, a dispetto del nome e rispetto all’economia industriale del periodo fordista e a quella del primo periodo post-fordista, tratta la merce più eterea e al contempo più pesante che c’è: l’informazione e il denaro». Aldo Bonomi, sociologo, da sempre attento alle mutazioni e ai cambi di paradigma nel sociale e nel mondo del lavoro, spiega così il cambio di scenario che sta travolgendo molte economie. A Bonomi abbiamo chiesto di ragionare con noi sul tema dell’economia della condivisione, tema al centro del nostro bookazine di novembre. Fordismo, capitalismo molecolare, sharing economy. Partiamo da un punto preciso: viviamo in una società dove i processi di accelerazione stanno producendo salti qualitativi, non solo quantitativi, fino a pochi mesi fa inimmaginabili…
La stasi accelerata si presenta, oggi, come il massimo della modernità. Si tratta di un’accelerazione in circolo, dove si pone la questione se i soggetti sociali siano all’interno di una ruota della fortuna o di una ruota da criceti. Detto in altri termini: il tema cruciale è capire se, in termini di costruzione delle comunità dal basso, c’è un meccanismo dentro il quale si propone una ruota della fortuna per la cittadinanza attiva. Detto ancora in altri termini, bisogna capire quanto i soggetti sociali, dentro questo cambiamento, sono immessi in una economia della condivisione oppure in un’economia della dissipazione. La prima riflessione che pongo, a proposito dell’accelerazione, è una riflessione di Mario Tronti: Ci fanno correre tutto il giorno, per impedirci di pensare. Si corre e si passa in poco tempo da un capo all’altro del mondo e si lascia a terra un pezzetto dell’interno di sé…». Rivolgendoci alla cultura della sinistra e del movimento operaio, che ha molto a che fare col discorso col discorso fordismo-capitalismo molecolare-sharing economy, dovremmo ricordare che il movimento operaio ha cominciato a perdere quando ha cominciato a correre, in Occidente e in Oriente, col capitalismo moderno anziché insistere sulle contraddizioni del sistema. Oggi si tratta di ripartire. E di ribadire, in questo salto di d’epoca, che non c’è sharing economy senza social economy. Non c’è economia della condivisione, se non c’è società della condivisione. Non c’è smart city se non c’è una città della condivisione. Ripartire dal territorio con l’impresa sociale, il volontariato, l’associazionismo – questa grande nebulosa che si deve riconfigurare – in un contesto di crisi radicale del welfare diventa molto importante.

 

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La modernizzazione sempre crescente e accelerata che viene avanti, anche nelle forme della sharing o della gig economy, è qualcosa che dobbiamo semplicemente assecondare, trattandosi di un processo inarrestabile, oppure dobbiamo fermare tutto?
Non bisogna dimenticare che siamo difronte a un enorme sviluppo tecnico, dato dalla rete. È la rete che permette la circolarità e permette gli algoritmi che determinano la qualità di quella circolarità. Il vero problema è capire se lo sviluppo tecnico deve essere semplicemente pensato per nuotarci dentro oppure se lo sviluppo tecnico deve essere osservato dentro tutte le sue contraddizioni. Per riflettere può essere utile partire da una scomposizione. La scomposizione è questa: la società circolare e la sharing economy si presentano come un grande storytelling.

Ma “quale storytelling”? Quello delle nostre vite o quello delle aziende?
Questo è il punto vero: perché c’è uno storytelling management che viene prodotto dai gruppi dominanti che detengono il controllo – dalle internet company alle centrali per l’innovazione –, uno storytelling che ci invita a entrare dentro la ruota. Per fortuna, negli ultimi vent’anni, c’è stato anche un altro uso dello storytelling: penso a quanto i soggetti della gig economy hanno usato lo storytelling per rendersi visibili. Oggi c’è un racconto dei soggetti invisibili del precariato che li rende visibili. Non bisogna dimenticare la dimensione dello storytelling come autonarrazione, ma non dobbiamo dimenticarci nemmeno della dimensione della storia.

Se lo storytelling rimanda a se stessi, la storia a che cosa rimanda?
Rimanda comunque alle grandi derive, ai grandi salti d’epoca e alle biografie dei soggetti, alla loro vita nuda, alla loro vita reale. Una vita che non può essere sussunta dentro lo storytelling. Il problema, oggi, è riprendere la pratica antica che sta dentro la storia dei soggetti sociali. Bisogna riprendere a fare con-ricerca. Bisogna fare con-ricerca con i soggetti e non rappresentazione individuale o spettacolare dello storytelling. Bisogna rimettere in mezzo la storia, per evitare la nevrosi e, al contempo, la stasi accelerata o per contrastare lo storytelling management. Dobbiamo ricominciare a fare ricerca tra i soggetti.

Ai tempi del fordismo era più semplice, la società era verticale. il bianco era bianco, il nero era nero…
La società fordista era caratterizzata da conflitto capitale-lavoro con lo Stato in mezzo. Questa fase è passata in un secondo ciclo, quello della società orizzontale che in Italia è stata caratterizzata dal capitalismo molecolare e dall’impresa diffusa. Nell’orizzontalità non c’era di per sé uguaglianza o equità per chi stava fuori. Il problema è che in questa società orizzontale entravi o facendo impresa o con la partita Iva. Rispetto ai casi di oggi della gig economy, tipo “ora et Foodora”, che oggi ci fanno meraviglia dobbiamo ricordare che sono dentro il capitalismo molecolare e diffuso. Sergio Bologna a suo tempo fece già una distinzione, trovando la cesura tra lavoro autonomo di prima generazione e lavoro autonomo di seconda generazione. Questo lavoro autonomo già cominciava a entrare dentro questa gig economy…

E d’altra parte c’era già, nella fine secolo che abbiamo attraversato, il fenomeno del capitalismo personale…
Alcune forme produttive presupponevano che il soggetto si percepisse come capitalista personale. Se, poi, il capitalista personale si ritrova oggi a portare in giro pasti caldi con la propria bicicletta ovviamente deve avere coscienza di sé e capire meglio la propria situazione…

Qual è, allora, l’istanza fondamentale della società circolare così come oggi viene rappresentata?
Questa rappresentazione ci dice che noi dobbiamo metterci in circolo rispetto a beni come l’acqua, l’energia, i rifiuti, la mobilità (il car sharing), la logistica, sicurezza e sanità, spazi e luoghi pubblici, accoglienza e inclusione, storie e emozioni, riconoscimento, partecipazione, amministrazione… Ci dice che la messa in circolo di questi fattori, dove noi collaboriamo, rende il processo fattibile e virtuoso. L’economia circolare si basa su un concetto importante: la conoscenza globale in rete soprattutto a base urbana. Oggi, nel ciclo dell’economia circolare, siamo dentro la forma produttiva della società dello spettacolo. Forma produttiva della società dello spettacolo che Guy Debord aveva previsto, ma noi stiamo vedendo nella sua effettualità. Tanto per limitarci alla gig economy, se componiamo e scomponiamo la parola chiave in inglese, “gig” significa il calesse, il lavoretto, la serata, l’esibizione musicale. Tanto è vero che “gig” viene usata la priva volta per indicare le band che andavano in giro a fare le serate.

L’industria scompare…
Infatti abbiamo a che fare con la dimensione dell’impresario.

Il vecchio impresario che un giorno paga, un altro no, un giorno apre un locale e il giorno dopo si porta via tutto…
Si tratta di un salto non da poco: il nostro committente non è l’impresa, come l’abbiamo conosciuta dentro il ciclo manifatturiero, ma sono impresari. Gli impresari hanno, ovviamente, la rete della conoscenza e mettono al lavoro i soggetti. Dopo di che, i precari presi in questa rete possono essere scomposti in partite Iva fluenti, che “ci stanno dentro”, attori dello storytelling e convinti assertori dello storytelling management… Poi ci sono quelli che stanno dentro ma sono riluttanti. Ma la cosa importante è che il problema non riguarda solo i lavoratori della conoscenza, ma il problema è che gli impresari determinano anche i pasti caldi. Questo percorso sembra la realizzazione pratica di quello che veniva definito, un tempo, il Terzo settore.

Prego?
Mi spiego: ai tempi del fordismo, fra capitale e lavoro, il Terzo settore si trovava nel mezzo del conflitto per intermediare coloro che erano carenti di welfare. Nella fase della società orizzontale – il capitalismo molecolare, diffuso, delle partite Iva, il lavoro autonomo di seconda generazione, etc – il Terzo settore diventa invece l’asse portante su cui tutto si regge o su cui la società cade.

Lo Stato nella crisi del welfare comincia a non essere così centrale… E il Terzo settore può finalmente diventare adulto…
Il vero problema è che oggi non è più un Terzo settore, perché acqua, energia, luoghi, storia, accoglienza… devono essere innervati dalla cittadinanza attiva. Se non c’è cittadinanza attiva che entra dentro la società circolare, la società circolare si blocca. Quello che un tempo era il Terzo settore oggi diventa un settore centrale dentro il ciclo. Il Terzo settore diviene un attore primario quando si tratta di capire e agire per i diritti di coloro che, in rete, stanno mani e piedi dentro il capitalismo molecolare. Il punto non è essere o meno d’accordo con questo, il punto è capire che il ciclo è questo, non altro. E il ruolo del Terzo settore può essere molto importante sia dal punto di vista dei lavori, sia dal punto di vista sociale ed economico perché rimette al centro un discorso dove i soggetti hanno molto da dire. Il ciclo è questo, ed è un ciclo molto importante, che rimette al centro sia dal punto di vista dei lavori, sia dal punto di vista sociale e economico. I soggetti, all’interno di questo ciclo, hanno e avranno molto da dire se capiscono e si pongono il problema di contare di più. Come gli operai, al tempo del fordismo, si sono chiesti come avere più diritti rispetto al welfare, come nella società orizzontale ci si è posto il problema di chi era dentro e di chi era fuori, oggi bisogna capire chi sta in mezzo.

I ceti medi che, ai tempi del fordismo e della società orizzontale erano ancora l’ago della bilancia, dentro il nuovo ciclo non contano più nulla…
La ruota non ha più bisogno di ceti medi, ha bisogno di soggetti che entrino dentro la ruota. Il problema è: dobbiamo essere solo motori della cittadinanza attiva per entrarci, oppure il problema diventa – cosa che sostengo da tempo – ricostruire e ripartire dalla comunità. Una comunità che, oggi, in questo processo è completamente dissolta. Il problema è dunque la comunità da ricostruire, come agente dal basso, come globalizzazione dal basso che parte dai territori, dai lavori, dalle periferie e chiede e sviluppa un meccanismo di compartecipazione rispetto ai grandi cambiamenti. Nella concezione dell’impresario il vero problema è la sussidiarietà verticale. Oggi si pone invece la questione della sussidiarietà circolare. Si tratta di immettere nel circuito della circolarità. La sussidiarietà circolare significa che nei grandi salti d’epoca –e questo lo è tanto dal punto di vista del modello produttivo, quanto dell’informazione – nei grandi processi della politica e dell’economia bisogna essere in grado di mettere in mezzo la società. Possiamo essere disponibili a essere cittadinanza attiva, ma se lo vogliamo essere davvero dobbiamo avere il potere di poter negoziare con i soggetti e non essere l’ultima ruota del carro di un bando.

Dinanzi ai fronte dei profughi, ai migranti, alla crisi siamo chiamati a entrare dentro questo circuito, ma il vero problema è che non siamo in grado di metterci in mezzo e negoziare rispetto a questi processi epocali.
Il grande salto d’epoca che stiamo vivendo riproduce i meccanismi di esclusione, di emarginazione e di controllo che abbiamo già conosciuto attraverso le categorie del Novecento. Ma produce anche un nuovo sottoproletariato e un sottoproletariato digitale a cui si agganciano i nuovi populismi. Il populismo dall’alto, dello storytelling management, e un populismo dall’alto che ritorna e si rinserra rispetto a categorie di sangue e suolo. Ecco perché i corpi intermedi, oggi, sono più necessari che mai.

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