Abiteresti con me?

Intervento di Angela Bagnato, dell’associazione Solaris di Roma, all’incontro formativo del progetto Amplicasa che si è svolto il 16 e 17 febbraio 2018 a Roma

Da una parte l’esigenza di uno spazio abitativo privato e dall’altro la possibilità di uno spazio condiviso, quindi di relazioni, di socialità. Queste due caratteristiche ci hanno fatto pensare, nel 2003, che una certa forma di cohousing potesse essere una soluzione per i pazienti psichiatrici. Così è nato il progetto “Le chiavi di casa”, che cercava appunto una risposta al tema dell’abitare per quei pazienti che, dopo avere concluso il proprio percorso in una comunità terapeutica o in strutture residenziali, sono pronti a tornare a vivere in appartamento.

 

Un passaggio difficile

Si tratta di un passaggio molto duro, e a volte poco considerato nella sua complessità, perché “abitare” ha tanti significati. Ognuno di noi proietta sull’idea di abitare desideri, paure, emozioni diverse. I pazienti psichiatrici, ad esempio, potevano venire da situazioni in cui la casa c’era, ma la dimensione abitativa si restringeva alla propria stanza, da cui non volevano uscire. E c’erano invece situazioni quasi opposte, in cui la dimensione abitativa era quella della strada. E poi c’era stato un passaggio di istituzionalizzazione, quindi di comunità terapeutica, dove si sta buona parte della giornata insieme, si mangia insieme, si fanno tante cose insieme.

Abitare vuol dire autonomia, responsabilità, cura di sé: non è poco.

Per la maggior parte delle persone, sentirsi dire “sei pronto per andare a vivere fuori dalla comunità”, è un trauma, perché la comunità è diventata una forma di identificazione e quindi l’idea di proiettarsi a vivere in un appartamento – specie in una città grande come Roma – spaventa. C’è anche un problema di “abituarsi all’abitare”, che vuole dire gestire l’affitto, il condominio, le bollette, programmare la spesa… E naturalmente tutelare la cura di sé e dei propri spazi.

La casa e il quartiere

Ma abitare è anche la necessità di sentirsi riconosciuti nel quartiere in cui si vive, perché il fatto di affidarsi al libero mercato per trovare le case, ti porta a radicarti in una zona. Abitare dunque è non sentirsi isolati, è sentirsi a proprio agio nel quartiere, quando si va all’edicola, si entra in un negozio, eccetera. Potrei citare la testimonianza di un ragazzo che, dopo 18 anni di comunità terapeutica, è andato a vivere in un appartamento privato, in affitto:

«Il mio quartiere si chiama Africano ed è a Roma (…) Nel mio quartiere ci sono dei negozi sfiziosissimi Squin Ink e Lampo e il punto Einaudi, ma soprattutto voglio evidenziare che nel mio quartiere oramai mi conoscono tutti. Io sono Maurizio per il bar Funari, per l’edicola di Giulio e Patrizio, per Matteo (il barbiere), tabaccaio, supermercato, commessa di Feltrinelli e alcuni negozi dove comunque sanno che sono io.»

L’associazione Solaris ha deciso di accompagnare il passaggio dalla comunità all’abitazione privata affacciandosi al libero mercato, ma in particolare i familiari – l’associazione nasce da un gruppo di familiari – si sono resi conto che singolarmente non avrebbero potuto affrontare il problema, mentre insieme, e in rete con altri soggetti, avrebbero potuto raggiungere i loro obiettivi.

Il progetto prevede che due o tre persone abitino stabilmente nello stesso appartamento, e che siano supportati. Il fatto che queste persone hanno in genere delle indennità, e che ci sia stato anche un intervento del Dipartimento di Salute Mentale, hanno permesso di affrontare gli affitti e le spese. Il problema quindi non era tanto quello economico, quanto quello di trovare un padrone di casa disponibile ad ospitare una persona con disagio psichiatrico. Il titolo del mio intervento è “Abiteresti con me?” (titolo anche di un opuscolo ideato da Solaris nel 2016 a seguito del progetto Quotidianamente, finanziato da CESV-SPES Centri di Servizio per il Volontariato del Lazio),  perché non possiamo ignorare che lo stigma attorno a queste persone è grossissimo. Il problema quindi è la casa, ma è anche superare lo stigma: questo è un punto complicato, ed è il punto su cui l’associazione si è molto impegnata.

La rete

L’abitare per i pazienti psichiatrici è stato possibile perché abbiamo lavorato in rete con il II Municipio e il Dipartimento di Salute Mentale, prima dell’ASL RM A e ora ASL Roma1.

Proprio perché c’è una molteplicità di bisogni, un attore da solo non ce la può fare, non ce la può fare l’associazione da sola.

Ad esempio, abituarsi all’abitare significa imparare a prendersi delle responsabilità e per questo serve un supporto all’housing. Solaris, grazie al contributo del II Municipio di Roma, che ha finanziato un progetto dedicato al supported housing per i pazienti psichiatrici, ha attivato misure di supporto all’abitare, che si concretizzano nell’affiancare e accompagnare i pazienti nel disbrigo di incombenze quotidiane, quali il fare la spesa, organizzare gli spazi domestici, pagare bollette, eccetera.

La nostra associazione, Solaris, ma anche altre con cui lavoriamo, si occupano anche dell’integrazione sociale e del sostegno alle famiglie, perché anche per le famiglie sapere di avere un figlio, un fratello, un parente in un’abitazione autonoma può creare difficoltà, dubbi. Per questo collaboriamo con un’associazione, che si chiama Apeiron, che organizza una volta al mese degli incontri di formazione con i familiari, per ragionare insieme sui possibili problemi, confrontarsi sulle esperienze che si stanno facendo.

Quindi la chiave di volta del nostro progetto è stata la rete, perché ha permesso di leggere la complessità dei bisogni legati alle persone con disagio psichiatrico, e di provare a rispondere, di intrecciare le esigenze dello spazio abitativo privato con quelle della socializzazione e dell’integrazione sociale.

 I laboratori integranti

Per costruire integrazione e reti attorno all’abitare, organizziamo dei laboratori integrati, cioè dei laboratori che vengono proposti alle persone in appartamento, ma che sono aperti anche ad altri pazienti e in generale a tutto il quartiere. Questi laboratori negli anni si sono organizzati grazie al contributo di vari soggetti, tra cui la Regione Lazio, la Chiesa Valdese, I Centri di Servizio per il volontariato.

Facciamo ad esempio il laboratorio di musica: qui entra in gioco il secondo Municipio, che ci mette a disposizione la sala cittadina, dando così visibilità al laboratorio sul territorio. Le persone che conducono il laboratorio sono esperti e a conclusione dell’attività si organizza una festa aperta alla cittadinanza in cui si dà spazio a ciò che si è appreso.

C’è anche il laboratorio di scrittura, che diventa anche un momento in cui raccontarsi: partecipano pazienti, operatori, qualche familiare, ma anche le persone del quartiere. Facciamo laboratori di passeggiate urbane, per riscoprire i parchi con un’esperta botanica, che si occupa di architettura del verde.

L’idea insomma è quello di una certa forma di “co-housing” in cui la dimensione della condivisione è allargata al quartiere, per rispondere all’esigenza di lottare contro lo stigma.